La lotta quarantennale per distruggere la figura del maestro non è ancora finita. Gli ultimi diplomati abilitati dalle ormai chiuse scuole magistrali, da anni insegnano ma vengono cancellati dalle graduatorie e scendono in piazza per cercare di sopravvivere.
Da sabato scorso un raggruppamento di docenti precari sostenuti dall’Anief ha iniziato lo sciopero della fame, con presidio permanente davanti al ministero dell’Istruzione, per dire no alle intenzioni espresse dall’Avvocatura di Stato che danno seguito alla sentenza n. 11 dell’adunanza plenaria del 20 dicembre scorso.
Sono circa 50mila i maestri minacciati in misura diversa dalla sentenza che dispone la necessità della laurea per essere iscritti nelle graduatorie ad esaurimento e quindi idonei a partecipare alle assunzioni definitive. Decine di migliaia di maestre e maestri con diploma magistrale, tra cui circa 5.600 già immessi in ruolo, sono così destinati ad uscire dalle Gae e a perdere il loro lavoro.
Le scuole magistrali sono state demolite da una campagna pluridecennale, che da un lato criticava i loro privilegi e cioè la concessione del diploma in 4 anni a differenza dei 5 anni necessari per gli altri diplomi, e contemporaneamente confutava la presenza fortissima della pedagogia cattolica.
Negli anni settanta e seguenti ci fu una grandiosa lotta della cultura “laica” e dello Stato contro la Chiesa cattolica per il controllo del processo formativo, ma anche dei posti di lavoro nell’area scolastica. Il mondo cattolico deteneva un’egemonia tradizionale nella formazione di base, dove la maggioranza degli insegnanti proveniva dai suoi istituti ed aveva sbocchi professionali in scuole sempre legate al mondo cattolico. Nel ’68 non c’era ancora un solo asilo statale. Oggi sono ormai il 90 per cento, mentre gli asili e le scuole cattoliche sono sempre più vicine alla chiusura. Il mondo cattolico, anche allora pieno di contraddizioni, si divise e in fondo accettò questa situazione.
Cito di seguito, da Lettera a una professoressa, la posizione di Don Milani, osannato nei convegni ma ignorato nella prassi organizzativa.
Nella sua lotta contro le bocciature, Don Milani se la prendeva con la maestra che bocciava: “Cara signora, … ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che ‘respingete’. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate”.
“Allora le cifre (dei ripetenti e degli abbandoni nda) si mettono a gridare contro di voi. Dicono … che voi siete o stupidi o cattivi”.
“La maestrina non accetta ordini dal popolo sovrano. Boccia e parte per il mare”.
“Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere”.
“Alla fine delle elementari 11 ragazzi hanno già lasciato la scuola per colpa delle maestre”. (su 32 iniziali, nda).
Ma alla fin fine don Milani apprezzava di più le maestre che le professoresse. Non a caso la sua lettera è indirizzata “a una professoressa”, simbolo dell’ipocrisia e della falsa coscienza. Di più, nel dibattito sulla media unica, stabilita nel 1962, egli chiedeva di affidare ai maestri, e non ai docenti laureati, il ruolo di insegnanti. Voleva maestri insegnanti in tutti gli otto anni di scuola dell’obbligo e disprezzava, perfino detestava, i laureati.
“Ci sono decine di migliaia di posti scoperti nelle medie. Li avete dati a chiunque fosse della razza laureata … Li avete negati ai maestri che avevano anni di esperienza nella scuola. … i deputati che c’è ora non apriranno mai le medie ai maestri. Al contrario … propongono di esigere la laurea anche per chi insegna nelle elementari … Però quando vanno a parlare col maestro … parlano come a uno di casa, collaborano. Quando parlano col professore delle medie misurano le parole … Lo sanno anche loro. I maestri valgono perché sono stati poco a scuola. I professori sono quello che sono perché sono tutti laureati”.
“Alle camere i laureati sono il 77 per cento … ma gli elettori laureati sono l’1,8 per cento”.
“Sarà dimostrato che c’è un partito più grosso dei partiti: il Partito Italiano Laureati”.
“Cerco di capirvi. Avete un aspetto così rispettabile. Non avete nulla del criminale. Forse qualcosa del criminale nazista. Cittadino onestissimo e obbediente che registra le casse di sapone … fatto con carne d’uomo”.
“Su trenta ragazzi (di terza media, nda) alle superiori ne sarebbero andati tre”.
Don Milani faceva una netta distinzione tra la scuola di base obbligatoria, cioè i primi otto anni di scuola, e la scuola superiore. Vietava solennemente la bocciatura nella scuola di base ed invece era fautore di una durezza intransigente nella scuola superiore, cominciando proprio dalle scuole magistrali.
“Il problema qui si presenta tutto diverso dalla scuola dell’obbligo. Là ognuno ha un diritto profondo a essere fatto eguale. Qui invece si tratta solo di abilitazioni … per le patenti siate severi. Ma non bocciate l’autista perché non sa la matematica, o il medico perché non sa i poeti … Siete sicuri che per fare un buon maestro sia indispensabile il latino?”.
Don Milani voleva che le magistrali non avessero sbocco universitario e nemmeno altri sbocchi professionali diversi dall’insegnamento, il preziosissimo per lui insegnamento di base, quello che costruisce gli “uguali”.
“I maestri abilitati del ’63 furono 22.266. L’anno seguente ne troviamo iscritti all’università 13.370. Su 100 ragazzi che abilitate maestri, 60 non sono contenti. C’è la tendenza a estendere il numero delle facoltà a cui si accede dalle magistrali. Così la preparazione dei maestri diventa sempre più generica e svogliata. Per fare un buon maestro occorre una scuola chiusa che non dia sbocco a nulla”.
Nel suo integralismo etico (a tratti forse manicheistico) proponeva di fare due scuole, una per le persone con la vocazione verso la dedizione totale, una verso gli altri, quelli che pensano “al proprio bene”.
“Si potrebbe fare due scuole. Una chiamarla ‘scuola di servizio sociale’ dai 14 ai 18 anni. Ci vanno quelli che hanno deciso di spendere la vita solo per gli altri: il prete, il maestro (per gli otto anni dell’obbligo), il sindacalista, l’uomo politico. Magari con un anno di specializzazione. Le altre le chiameremo “scuole al servizio dell’io” e si potrebbe lasciare quelle che c’è ora senza ritocchi.
Come si vede il rispetto totale di don Milani è verso quattro “professioni”, il prete, il maestro, il sindacalista, il politico. Ma non era contento dei politici suoi contemporanei anche se risparmia i democristiani.
“Topi di museo le destre. Topi di laboratorio i comunisti. Lontani gli uni e gli altri da noi che non si parla e s’ha bisogno di una lingua d’oggi e non di ieri”.
Anche sui contenuti la sua critica era frontale: “Tre anni su brutte traduzioni di poemi antichi (Iliade, Odissea, Eneide). Tre anni su Dante. Neanche un minuto solo sul vangelo. Non dite che il vangelo tocca ai preti. A letteratura (nella scuola di Barbiana, nda) il capitolo più lungo toccava al libro che più ha lasciato il segno”.
“Da gente che dimentica il vangelo c’è da aspettarsi qualunque cosa … ci sarà qualche libro un po’ diverso. Ma vorrei avere una statistica di quelli più adottati”.
Devo dire che inutilmente ho cercato, a lungo e più volte, di avere dati statistici sui libri di testo adottati nelle scuole, sia nazionali che per regione o provincia. Purtroppo sui libri di testo grava un imbarazzatissimo silenzio. Per quanto vedo io, i libri di testo hanno ritrovato le caratteristiche più tradizionali, quelle del demoniaco nozionismo.
Che dire? Ignorare le voci profetiche, o magari ridurle alla propria misura, fa sempre comodo.