In un interessante articolo appena comparso sul Corriere della Sera, Umberto Veronesi prende in rassegna alcuni recenti lavori in campo neuropsicologico per mettere a fuoco il problema del bene nell’uomo. Quando mettiamo in atto un gesto altruistico, secondo l’antropologo Donald Brown dell’Università della California, si attiverebbero nel cervello le stesse reti neuronali che si attivano quando vediamo cose belle, o sperimentiamo comunque cose piacevoli. La conclusione di Veronesi è che «è vero che il gene della bontà non è stato ancora scoperto, ma il senso del bene e dell’altruismo è iscritto nei nostri geni». Il messaggio appare, a prima vista, molto, molto rassicurante: è davvero cosi? Quale prezzo dobbiamo pagare a questa visione dell’uomo?
Lasciamo pure in disparte Hiroshima, le stragi dei lager sovietici e nazisti, per i quali intravvedere l’azione dei geni della bontà ci troverebbe come minimo impreparati, e concentriamoci invece su quale immagine dell’uomo nasce dall’idea che il bene sia il risultato della nostra programmazione biologica. Intendiamoci: certamente la nostra capacità di riconoscere il bene deve essere legata al modo con il quale siamo costruiti. D’altra parte il bene, l’esperienza del bene, non è un fatto astratto; in ultima analisi passa attraverso le nostre percezioni sensoriali. Ma qui si dice qualcosa di ben più grande: si dice che è la nostra capacità di scegliere il bene che è frutto di una programmazione biologica. Una prima obiezione a questa lettura naturalistica della bontà la pone la capacità umana di compiere sacrifici: sì, sacrifici, cioè quei gesti nei quali le nostre percezioni derogano alle sensazioni immediatamente piacevoli per noi per proiettarle su una sensazione piacevole per un altro. Si dirà che anche questo è un modo di attivare le stesse reti neuronali; si dirà che i meccanismi di empatia – che pure sembrano avere una base neuropsicologica, come mostrano gli studi che fanno capo al gruppo di ricerca italiano di Giacomo Rizzolati sui cosiddetti “neuroni specchio” – provocano per immedesimazione una sensazione piacevole in chi compie il sacrificio e che dunque la tesi della bontà programmata geneticamente è confermata. Un papà o una mamma lavorano giorno e notte sperimentando la fatica per i figli, sapendo che così possono permetter loro una vita di agi e comodità: questo, in fondo, darebbe loro soddisfazione, come «la vista di una bella donna, un dolce, il denaro o altre gradevolezze». Ma cosa rimane dell’uomo se fosse vero questo? L’uomo che esce da questa lettura è la tristissima immagine di un uomo che non è in grado di scegliere: un uomo che è controllato dalla struttura con la quale è costruito da «una facoltà della mente che si è evoluta per milioni di anni fino a includere un insieme di principi che tutti ritengono giusto rispettare». Un uomo, in definitiva, senza libertà; un uomo che scarta necessariamente il male: in fondo, un uomo che è una macchina. Non so quanti di noi provano una sensazione piacevole a sentirsi dire che siamo solo dei complicatissimi ingranaggi, ma anche se ciò fosse, anche se ignorassimo la nostra coscienza, è interessante comunque vedere dove questa tesi ci porta. Ci sono due linee argomentative nell’articolo: quella culturale, in senso lato, e quella biologica. Vediamole.
Sulla domanda «perché siamo buoni», dice Veronesi, «l’etica, la filosofia e la religione hanno cercato di dare risposte, spesso parziali, spesso fideistiche». Curiosa questa partizione: etica, filosofia e religione. Sembra di esser di fronte a tre prospettive distinte: senza dubbio, la religione non è un’etica né una filosofia, ma aspettarsi che la religione non dica nulla sull’etica o non fornisca una prospettiva filosofica – cioè inerente alla nostra visione globale del mondo – non sembra sostenibile, a meno che non si parta dal presupposto che la religione sia un’etica, contraddicendo la premessa: «il senso morale non deriva dalla religione che ci viene inculcata», dice Veronesi citando un libro di Steve Pinker, divulgatore scientifico di fama, professore a Harvard. Ammettiamo pure che “inculcare” sia un modo un po’ goffo per dirci che nella nostra società siamo forzati ad appartenere ad una religione – situazione non molto credibile nella secolarizzazione odierna: quello che vien dato per scontato qui è proprio che la religione sia una «visione del mondo» non un’esperienza, un’apertura della ragione alle domande ultime. Quanto sono lontane le parole di Luigi Giussani secondo il quale «il contenuto del senso religioso coincide con queste domande [per che cosa vale la pena che io viva? Qual è il significato della realtà? Che senso ha l’esistenza, n.d.r.] e con qualunque risposta a queste domande». (Il senso di Dio e l’uomo moderno, p. 12). Certo, se si parte così è difficile pensare che la «religione inculcata» possa fornire delle risposte.
E non pare convincente nemmeno la prospettiva biologica. Veronesi cita in particolare due professori di Harvard: Mark Hauser e Steve Pinker. Entrambi porterebbero dati a favore di questa visione naturalistica della tendenza dell’uomo al bene. Per entrambi esisterebbe una «grammatica universale» della morale che per effetto dell’evoluzione ci porta a volere il bene. Forse non possiamo accorgercene ma davvero è così, forse la nostra intuizione di scegliere è un’illusione ottica della nostra coscienza, forse è la nostra coscienza ad essere un’illusione ottica: ciascuno di noi è davvero un complicato meccanismo, ma è curioso notare come la posizione di Hauser e Pinker sia di fatto l’importazione di una visione rivoluzionaria della natura del linguaggio in ambito morale (come immediatamente suggerisce il termine “grammatica universale”). Non è certo un caso che Pinker sia stato un allievo di Noam Chomsky, il Newton della linguistica moderna, e che Hauser abbia scritto un articolo recente proprio con Chomsky. La rivoluzione che Chomsky ha portato nella linguistica – la cui portata ormai si fa sentire in ogni campo dello studio della mente – è che malgrado le differenze, ogni lingua umana non è che l’esecuzione di un progetto biologicamente determinato. Ma qui sta il gigantesco equivoco: quello che è innato, per Chomsky, è la grammatica, non le frasi che produciamo, quello che è innato è la struttura non l’uso che se ne fa. Se l’atteggiamento attribuito ad Hauser e Pinker fosse riprodotto in linguistica, saremmo portati a dire che, dal momento che l’uomo condivide la stessa struttura del linguaggio, tutti gli uomini dicono le stesse cose. Chomsky, invece, proseguendo la linea di pensiero di Cartesio, sottolinea proprio l’irriducibilità della libertà espressiva dell’uomo, anche se deve usare un codice grammaticale biologicamente determinato.
Ma non è difficile constatare quanto questo tentativo di riduzione naturalistica della bontà ai circuiti neuronali provochi imbarazzanti paradossi. Intanto la prospettiva genetica non è coerente con la visione sostenuta qua. Peter Medawar, premio Nobel per la medicina o fisiologia nel 1960, scrisse: «Uno fra gli errori più gravi e più diffusi del geneticismo è la convinzione che, se un carattere è condiviso da tutti gli individui di una comunità, deve avere una base genetica. […] Può essere bene ripetere in questo contesto la ragione per cui questo canone supremo del genetisicmo non è soddisfacente: perché un qualche carattere possa essere giudicato ereditario o programmato geneticamente dev’esserci qualcuno che non lo possiede. La capacità di sentire il sapore della feniltiocarbammide, per esempio, ha notoriamente una base genetica proprio in quanto ci sono persone che non la possiedono (Medawar (1986): pagg. 161-162; corsivo mio)». Dunque, se la scelta del bene avesse letteralmente una base genetica, dovrebbero anche esistere persone geneticamente incapaci di compiere il bene e saremmo d’accapo. Anzi, si contraddirebbe una delle conclusioni più forti della tesi sostenuta da Veronesi: quella dell’universalità della bontà umana su base genetica. Infine, sempre nel suo articolo, Veronesi parte dicendo che «nel processo evolutivo degli esseri viventi la selezione della specie umana ha rappresentato un elemento di rottura». Verissimo: ma l’articolo si conclude dicendo che, secondo lo psicologo-filosofo Jonathan Haidt della Università della Virginia, «l’istinto a rifiutare la violenza è presente nelle scimmie reso (il cui genoma è identico per il 98 per cento al nostro)». Dove sta, dunque, il punto di rottura nell’evoluzione della specie umana? Forse, sarebbe meglio mettere la nostra libertà al centro, sia essa la libertà di scelta morale – tra il bene e il male – o la libertà espressiva – come quella che sperimentiamo quando utilizziamo questo tratto, questa volta sì unico della specie umana, quello di un linguaggio dalle potenzialità creative «infinite».