Il 26 aprile Eurostat ha pubblicato i dati sui 30-34enni che hanno una laurea, riferiti al 2016. L’Italia è al penultimo posto, davanti alla Romania: 26,2 laureati su cento giovani, contro un valore medio europeo di 39. Il giorno dopo, 27 aprile, la notizia era che il rettore dell’Università Statale di Milano pensa di introdurre dei test o qualche altro tipo di prova per far fronte all’eccesso di studenti che si iscrivono alle facoltà umanistiche, tutte in crescita (scienze umane +68%, storia e filosofia +40%, beni culturali +33%, lingue +21%).
Ma allora, i laureati (266.742 nel 2015, di cui il 58% ha conseguito la laurea triennale, il 29% quella magistrale e il 13% la laurea a ciclo unica) sono troppi o sono troppo pochi? Come si conciliano, a un giorno di distanza, due notizie così contrastanti?
Dal confronto internazionale, emerge che la quota di laureati è indiscutibilmente troppo bassa, benché l’Italia abbia raddoppiato la quota dal 2002, quando nella stessa fascia 30-34 erano il 13,1%, e non è detto che la situazione migliorerà: le immatricolazioni hanno mostrato deboli segnali di ripresa, dopo anni di calo, ma l’indagine Pisa mostra che solo il 38,3% dei quindicenni italiani pensa di laurearsi, contro una media di 44,2% per i 72 paesi Ocse che partecipano all’indagine. Poiché però il livello medio di istruzione incide sulla competitività e sullo sviluppo di un paese, l’Italia viene penalizzata sia da un tasso di laureati troppo ridotto, sia da una quota di abbandonanti intorno al 13% nella fascia di età 18-24, anche qui agli ultimi posti in Europa.
Tra le cause di questa situazione, ne metterei una di tipo culturale: il consiglio dei genitori della mia generazione, “studia, se vuoi riuscire”, sembra aver lasciato il posto ad uno sfiduciato “che studi a fare, non serve a niente”. Ma ci sono anche cause strutturali, prima fra tutte la mancanza di un canale di formazione post-diploma di tipo applicativo. Gli Its, faticosamente partiti, contano poche migliaia di iscritti, e le lauree triennali che hanno sostituito il diploma universitario conservano un carattere sostanzialmente accademico, orientato più al proseguimento che all’ingresso sul mercato del lavoro, come mostra il tasso di passaggio dal triennio alla laurea magistrale, che oscilla intorno al 60%, con variazioni anche consistenti per tipo di facoltà e zona geografica. Lasciano dopo il primo livello quasi solo gli iscritti ad alcuni corsi triennali, segnatamente quelli medici che hanno sostituito le scuole a fini speciali, che dopo la laurea trovano facilmente lavoro.
Ancora più grave del ridotto numero di laureati è l’abbandono: i tassi di iscrizione all’università immediatamente dopo il diploma sono in linea con i valori europei, ma si laurea la metà degli immatricolati, fra triennale e specialistica. Il Rapporto Anvur del 2016 dice che a sei anni dall’iscrizione il 32,8% delle matricole ha abbandonato, il 14% è ancora iscritto e solo il 53,1% si è laureato, percentuale che cresce di poco con il passare di ulteriori anni. Un iscritto su quattro abbandona entro il terzo anno, il 15% si trasferisce ad un altro corso di laurea tra il primo e il secondo anno: circa un terzo si laurea in corso, anche qui con differenze anche vistose fra corsi e zone territoriali. La conclusione di questa serie di numeri, che spero non abbia tramortito il lettore, è che l’attuale struttura del sistema dell’istruzione superiore, unita a meccanismi inadeguati di accesso (poco orientamento, nessun collegamento fra indirizzo di scuola superiore e corso di laurea scelto, assenza di percorsi brevi professionalizzanti) vanifica una supposta uguaglianza negli accessi, e comporta sprechi inaccettabili di risorse sia umane che finanziarie, dato che le università devono programmare un’offerta formativa dimensionata sugli immatricolati.
Aggiungo un altro tassello che ci consente di superare l’apparente contraddizione fra le due notizie date in apertura: i laureati non sono solo pochi, sono anche “sbagliati”: per dirlo in modo meno dilettantesco, sono ancora troppo numerosi in settori dove la domanda del mercato del lavoro è molto bassa. Dall’indagine Excelsior del 2016, le lauree per cui si prevedono più assunzioni sono quelle dell’area economica, dell’ingegneria e medico-sanitaria, che sono cresciute nei limiti del possibile (le lauree mediche sono a numero programmato), ma convivono con un numero eccessivo di laureati con titoli poco richiesti o legati al pubblico impiego, come giurisprudenza, scienze politiche, molti dei corsi umanistici. I laureati cosiddetti Stem (scienze, tecnologie, economia e matematica: l’acronimo è uguale in inglese e in italiano), in maggioranza maschi anche se il divario di genere si va riducendo, restano minoritari a fronte di una domanda in crescita.
Per venire al caso di Milano, anche grazie ad una buona attrattività sia della città che dell’Ateneo, e in mancanza di qualsiasi vincolo in accesso, un numero crescente di studenti si iscrive alle università milanesi (si stima che il 15% siano residenti, il 58% pendolari e il 27% fuori sede, di cui circa il 6,5% stranieri). Nei corsi umanistici, il ministero ha però ridotto la possibilità di reclutare nuovi docenti, tanto che in Statale, se si rispettassero rigorosamente i parametri ministeriali, cioè un docente ogni venti studenti, non solo non si potrebbero aprire nuovi corsi anche non umanistici, ma si arriverebbe all’assurdo di doverne chiudere qualcuno!
La preoccupazione del rettore si giustifica sotto due punti di vista: teme di non poter continuare ad assicurare in futuro un’elevata qualità della didattica, e teme che i suoi laureati vadano incontro ad un futuro lavorativo incerto. Se una procedura di orientamento adeguata, che includa anche eventuali suggerimenti per l’iscrizione, riuscisse a contenere la domanda “impropria” di chi abbandonerà dopo il primo anno, che nei corsi di laurea in questione è intorno al 16%, l’ateneo potrebbe investire più risorse per seguire gli studenti, anche con percorsi di tutorato o di “allineamento” per chi viene da secondarie di tipo tecnico o professionale.
Questo non vuol dire che filosofi e letterati siano da scoraggiare, o debbano rassegnarsi a un futuro professionale precario: significa piuttosto che chi sceglie questi percorsi deve farlo a ragion veduta, e non in mancanza di meglio, ed ha il diritto di avere una formazione di qualità che gli serva anche a trovare specifiche strade di lavoro, o di ulteriore perfezionamento, anche in attività a cui magari non pensano, e che potrebbero richiedere modifiche nell’offerta didattica. Ma le università sono troppo spesso lasciate sole in questo loro compito, salvo poi accusarle di essere una fabbrica di disoccupati.
P.S. Per inciso, io sono laureata in lettere. Potrebbe essere considerato un elemento di dissuasione?