L’istruzione è importante, si sa; ciò che è meno noto è che esserne privi o dotati di un basso livello, in tempo di crisi, può risultare esiziale. E’ quanto emerge dall’ultimo studio pubblicato dall’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico), che rileva un peggioramento delle condizioni retributive e del tasso di occupazione laddove il livello educativo sia minore. «Si tratta di un correlazione nota da tempo; investire sull’istruzione non sana i bilanci. Ma, sul lungo periodo, è tra le poche leve in grado di trascinarci fori dalla crisi», sottolinea, raggiunto da ilSussidiario.net, Tommaso Agasisti, ricercatore presso il dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano. In effetti, i numeri parlano chiaro. Il tasso di disoccupazione, nei Paesi Ocse, nel 2009 era pari, tra i laureati, al 4,4%; quello tra chi, invece, non ha terminato neppure gli studi superiori si è attestato all’11,5%, rispetto al 8,7% dell’anno precedente. «Il costo per gli individui e la società dei giovani che lasciano la scuola senza un diploma continua a salire. Dobbiamo evitare il rischio di una generazione perduta» ha dichiarato il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria.
Perché la crisi colpisce così duramente chi non ha una formazione superiore?
Il legame tra la qualità del capitale umano (di cui il livello di istruzione è parte integrante) di un Paese e il suo sviluppo economico è assodato dal buon senso e dalle analisi empirico-economiche. Resta da comprendere in che misura sia correlata al livello di istruzione la crisi in atto, la causa attuale dell’alto tasso di disoccupazione. E’ difficile stabilire che vi sia un rapporto diretto. La crisi, infatti, è legata alla struttura finanziaria dei Paesi che ne sono stati colpiti. Tuttavia, la disoccupazione, la bassa produttività e i tassi di crescita esigui hanno a che fare con la scarsa capacità innovativa e con la scarsa creatività. Ebbene: è evidente come questi ultimi due elementi siano fortemente influenzati dal livello di istruzione.
La disoccupazione giovanile dell’area Ocse è al 17%, in Italia al 27,6%. Quali fattori incidono su questo divario?
Dei paesi Ocse fanno parte anche alcune nazioni che non hanno problemi di crescita, come il Brasile. Se noi, in realtà, prendiamo in considerazione solo gli Stati europei, ci rendiamo conto che il divario non è più così ampio. Resta il fatto che un divario, effettivamente, c’è; l’Italia è penalizzata dallo scarso investimento sui giovani, e dalle limitazioni che hanno, in termini di carriera, nel mercato del lavoro. E’ culturalmente, ancora oggi, dominante l’idea secondo cui a certi posizioni debbano accedere solo i lavoratori più anziani. Il nostro tessuto imprenditoriale, inoltre, è slegato dai settori maggiormente connaturati allo sviluppo.
Angel Gurría ha esortato gli Stati ad investire in educazione, anche in tempo di crisi. Data la situazione dei debiti sovrani che sta mettendo a repentaglio il futuro dei Paesi, non le sembra un controsenso?
La crisi, sicuramente, è legata anche allo stato delle finanze pubbliche. Stravolgimenti, in termini di spostamenti di risorse, in favore di un intervento sull’educazione sono, quindi, impensabili in questa fase in cui i pareggi dei bilanci sono una priorità; vale per l’istruzione come per il welfare o la sanità. Tuttavia, il problema dei conti pubblici, attualmente, non risiede nel numeratore (il debito) ma nel denominatore (il Pil): in sostanza, l’aumentare del debito è tipico di tutte le economie in espansione; le criticità insorgono quando smette di aumentare il Pil. Ebbene: sul lungo periodo l’istruzione è una leva in grado di aumentare la produttività.
Qual è, secondo lei, alla luce dei dati Ocse, il nodo cruciale dell’istruzione in Italia?
La questione fondamentale è quella degli insegnanti. Una buona istruzione dipende dal livello di chi insegna. Il nostro sistema educativo non valorizza chi educa, perché non lo valuta, non prevede scatti retributivi competitivi rispetto al mercato del lavoro e la sua selezione è demandata a procedure burocratiche centrali.