Le ricerche di tipo neurobiologico sul linguaggio umano, col supporto di strumenti come la risonanza magnetica funzionale, si susseguono e spesso offrono ai linguisti il conforto di una conferma quantitativa di ciò che era già stato ipotizzato con altre metodologie, e insieme aprono nuovi problemi. Se ne è avuta un’eco recentemente su Pnas (Proceedings of the National Academy of Science) con lo studio di un gruppo di neurobiologi francesi guidati da Christophe Pallier che ha mostrato una precisa attività cerebrale che riconosce la struttura gerarchica e non lineare del nostro linguaggio. A esso la stessa rivista ha affiancato un commento di Andrea Moro, Professore Ordinario di Linguistica Generale presso la Scuola Superiore Universitaria IUSS di Pavia, che ha così risposto alle domande de ilsussidiario.net.
Un recente studio basato su dati neurobiologici rafforza l’ipotesi che nel linguaggio umano le parole sono organizzate gerarchicamente e non linearmente. Cosa significa più precisamente?
Significa che malgrado la struttura fisica del nostro codice di comunicazione preveda che le parole siano messe in fila una dopo l’altra, le relazioni che le collegano non sono organizzate lungo una linea ma procedono – per così dire – con un sistema a “scatole cinesi” dove una struttura di un certo tipo può essere contenuta in una struttura dello stesso tipo. Per fare un esempio semplice, da una frase come “Maria lo vide” posso dire “un’amica di Maria lo vide”, “il fratello di un’amica di Maria lo vide”, “il padre del fratello di un’amica di Maria lo vide”, ecc. Questa struttura gerarchica di tipo speciale si chiama ricorsiva e ha un impatto straordinario sul nostro sistema di comunicazione: permette, infatti, di produrre enunciati di lunghezza potenzialmente infinita. Un po’ come in matematica non esiste il numero più grande, così nel linguaggio non esiste la frase più lunga. Oggi, inoltre, si sa per certo che nessun sistema di comunicazione animale, salvo quello dell’uomo, ha questa capacità di produrre strutture ricorsive potenzialmente infinite. La novità del lavoro di Pallier e colleghi sta nell’aver misurato l’attività neuronale che si correla con il computo di strutture linguistiche ricorsive, attività selettiva che, pur in modo non quantitativo, era stata scoperta in lavori della metà del decennio scorso. Chi volesse una panoramica sul tema può consultare il mio Che cos’è il linguaggio (Sossella, Roma 2010).
Che valore possono avere dei dati neurobiologici nel supportare una teoria linguistica?
La linguistica moderna è stata rivoluzionata negli anni Cinquanta, quando sono confluiti nella disciplina i metodi e l’esperienza maturata in seno alla logica matematica e all’informatica e allo strutturalismo americano. Il catalizzatore di questa esperienza è stato il lavoro di Noam Chomsky che ha scoperto, come si diceva prima, che le grammatiche delle lingue naturali erano dotate di capacità ricorsive che nessun sistema statistico è in grado di cogliere. A quel punto, due cose sono state immediatamente chiare: primo, la grammatica è troppo complessa perché possa essere appresa dai bambini per imitazione senza mostrare errori che di fatto non si trovano mai; secondo, il nucleo delle regole fondamentali delle lingue è invariante al variare delle lingue malgrado apparenti diversità. Fu subito chiaro che per spiegare questi due fatti occorreva ipotizzare una guida neurobiologica precedente all’esperienza, che taluni chiamano con un termine oscuro “innata”. Oggi i dati neurobiologici non solo confermano quell’ipotesi, ma si integrano con essa suggerendo nuove strade sperimentali e nuove conseguenze inimmaginabili, soprattutto sul piano delle teorie sull’evoluzione della specie umana.
I risultati degli studi più recenti suggeriscono la necessità di ulteriori riscontri sperimentali? E con che tipo di esperimenti?
Non esiste una strada maestra, ma un’unica certezza. Senza un’integrazione tra i lavori dei linguisti teorici e i neurobiologi (e i neurologi) non si riesce nemmeno a immaginare come proseguire. Un passo avanti enorme rispetto solo a meno di cinquant’anni fa quando Eric Lenneberg, uno dei fondatori della neurolinguistica, doveva avvertire il lettore del suo libro più famoso (I fondamenti biologici del linguaggio, Boringhieri, 1982) che lo studio di tipo biologico sul linguaggio era paradossale. Si trattava, come spesso capita quando si tratta di linguaggio, di un pregiudizio ideologico che voleva vedere nel linguaggio l’espressione della cultura e dell’arbitrarietà umana. Oggi si capisce, dati alla mano, che quelle prime intuizioni di Chomsky erano corrette. Ci si aspetta, tra l’altro, di trovare alcuni aspetti neurobiologici comuni tra grammatica, musica e matematica, aspetti che iniziano ora a manifestarsi in modo sia pure ancora confuso.
Studi come quello di Pallier e come quelli che ha condotto lei ci possono aiutare a capire come e perché le grammatiche non possono variare a piacere, ma sono in qualche modo vincolate dalla struttura neurobiologica del cervello. Non c’è però il rischio di un’interpretazione troppo biologicistica che potrebbe rilanciare le tendenze riduzioniste che vedono il linguaggio come un unico oggetto neurobiologico?
È il contrario: più riusciamo a capire quali sono le radici neurobiologiche del linguaggio, più capiamo cioè i limiti dell’architettura di ogni grammatica – quelli che mi piace chiamare “i confini di Babele” -, più la creatività espressiva delle lingue umane, di tutte le lingue e di tutti gli individui, spicca come un fatto irriducibile a qualsiasi base sia biologica o molecolare sia logico matematica. Questo era ben chiaro già a Cartesio ed è chiarissimo a Chomsky che parla apertamente del linguaggio umano come di un mistero. Come ho concluso nel commento pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Science, mi piace pensare al rapporto dell’uomo con il linguaggio come a quello di Achille e la tartaruga. Man mano che ci avviciniamo al linguaggio, il linguaggio si allontana di un po’ rimanendo sostanzialmente irraggiungibile nella sua interezza. La nostra speranza è che in questa impresa, anche se non arriveremo ad afferrare la nostra tartaruga, almeno saremo capaci di guardarle dritto negli occhi.