L’arte per l’arte, la vita dissoluta e l’esistenza decadente, il fine eloquio, il dandismo e l’amoralità, l’omosessualità e l’Inghilterra vittoriana; o ancora le commedie, le poesie, gli aforismi e i paradossi, il genio e il talento, i viaggi e la prigionia. Uno pensa ad Oscar Wilde e crede che l’accozzaglia di reminescenze liceali sia sufficiente a rendergli giustizia. Che basti ricordare il titolo di qualche sua opera, alcune note biografiche, e del personaggio si sappia a sufficienza. In fondo, al di là del folklore suscitato dalla sua eccentricità, pare ci sia ben poco da dire. Tutto ciò che si sa di lui, in effetti, è vero. Ma si tratta di particolari. Innumerevoli e (più o meno) esatti. Che pur sempre particolari rimangono. E per questo non ne afferrano l’intima immagine. Quella di un spirito dotato di straordinaria sensibilità e di uno sguardo sulla cose realista, pungente e profondo. Wilde si interpellava sulle questioni ultime, spesso con irriverenza e fare beffardo. E anche nelle opere più leggere, in quelle che – all’apparenza – scrisse solo per divertire, questi interrogativi emergono. «Per tutta la vita cercò la Bellezza e ?nì per incontrare la Verità», sintetizza Paolo Gulisano, autore de Il Ritratto di Oscar Wilde, riferendosi all’«abisso dove incontrò definitivamente Dio». Del «mistero non ancora pienamente svelato» dell’artista, Gulisano ne parla con il Sussidiario.
Lei ha scritto una biografia su Oscar Wilde. Non ce n’erano abbastanza?
Per la verità il panorama italiano è piuttosto sprovvisto di testi su di lui. E quel poco che c’è offre una visione parziale. Per farmi un’idea precisa mi sono avvalso di testi inglesi, in particolare di una biografia monumentale scritta da Richard Elman (Oscar Wilde) e di un’altra, di Joseph Pearce (The Unmasking of Oscar Wilde). Ho voluto fornire un quadro completo, a partire da quell’accento religioso e da quella tensione ideale che ho riscontrato in quasi tutte le sue opere e nella sua esistenza. Wilde inseguì Dio per tutta la vita, ma nessuno lo dice. Mi sono sentito in dovere farlo, semplicemente raccontando i fatti.
Il titolo del suo libro ammicca ad Il Ritratto di Dorian Gray. Anche questo romanzo c’è una tensione ideale?
Il protagonista stipula una sorta di patto faustiano. Lui rimane giovane e bello, mentre ad ogni azione malvagia che compie il suo ritratto imbruttisce. Ma alla fine, non riuscendo a reggere il peso delle sue malefatte, pugnala il quadro, in un eccesso di follia. Dorian sarà trovato a terra, morto, brutto, vecchio e avvizzito. È una sorta di parabola etica: Dorian aveva tentato di nascondere il proprio male, tacitare la voce della coscienza e censurare il peccato. Ma alla fine tutto è venuto a galla. L’idea del romanzo venne in mente a Wilde un anno prima della pubblicazione quando, nel 1888, Londra era stata sconvolta dagli omicidi di Jack lo squartatore. Si pensava che questi fossero opera di un personaggio altolocato, il che indusse l’artista a riflettere sul problema del male. Non a caso il romanzo, all’epoca, suscitò parecchio scalpore: sconcertava che un lord – Dorian – potesse essere capace di azioni ignominiose. Wilde volle sottolineare che non esiste bellezza senza verità.
E nel fantasma di Canterville, di cui lei parla nel libro? Anche qui c’è una tensione ideale?
Basta leggerlo. Parla di Sir Simon de Canterville, relegato nella condizione di fantasma per aver peccato di uxoricidio. Triste e avvilito perché non riesce più a spaventare nessuno, chiede a Virginia, la figlioletta degli americani trasferitisi nella sua dimora inglese, di fare qualcosa per lui. Sa che non si può salvare da solo. La bambina si rivolge a Dio, pregandolo di perdonare il fantasma. Sir Simon trova così finalmente pace, morendo definitivamente. Non credo sia necessario fare particolari forzature per trovare nel racconto tracce della dottrina cattolica classica, che chiede di pregare per salvare le anime del purgatorio. Basta non fermarsi alla superficialità della vulgata e in ogni sua opera si notano questi cenni di verità, questa tensione religiosa che culminò con la conversione al Cattolicesimo, a Parigi, sul letto di morte
Dopo che L’Osservatore Romano ha recensito positivamente il suo libro, la stampa inglese – in particolare il Times, il Daily Telegraph, il Daily Mail e l’Indipendent – ha accusato lei e il Vaticano di voler fare di Oscar Wilde una sorta di cattolico a posteriori. È così?
Non ho voluto piantare alcuna bandiera ma esporre la verità sul personaggio. E a costoro rispondo: informatevi sulla sua vita! Per dirne qualcuna, Oscar Wilde – oltre ad essere il re dei salotti londinesi – era solito trascorre ore a conversare con i padri gesuiti. Quando era universitario, poi, fu sul punto di battezzarsi. Il padre, noto oftalmologo dell’epoca, nonché massone ed anti-cattolico, glielo proibì, minacciando di tagliargli i viveri. Nel 1877, inoltre, incontrò in segreto Pio IX , che ammirava fortemente e per il quale nutriva profondo rispetto – e all’epoca non era certo di moda stimare Pio IX -, tanto che, a quanti gli chiedevano della sua fede, rispondeva: «Non sono cattolico, sono papista». Molti dei suoi più fedeli amici si erano convertiti. Alcuni erano diventati preti o monaci. In carcere, infine, le sue letture furono Dante, Sant’Agostino e Newman. Ultimo, piccolo particolare: la Chiesa non ha mai condannato Oscar Wilde né mai lo ha ostracizzato. Fu l’Inghilterra, che ora glielo rinfaccia, a farlo.
Un’immagine piuttosto lontana dal dandy frivolo e vanitoso, che non si cura di nulla, salvo che dell’esteriore apparire
Che Wilde avesse un ideale estetico è vero. Ma definirlo unicamente in questi termini è riduttivo. Lui si rifaceva ai modelli ellenisti. Viveva nella Londra post-rivoluzione industriale, un’epoca di brutture, nella quale predicava il ritorno al bello. In tutte le sue opere riecheggia questo desiderio, talvolta in maniera barocca. Bisogna ammettere che il suo estetismo lo portò ad accettare l’amore omofilo. Che lui intendeva, tuttavia, secondo canoni tipicamente riconducibili alla Grecia antica.
Appunto. Oggi Oscar Wilde viene considerato un’icona gay…
Non si può dire che fosse omosessuale tout-court. Ebbe diverse fidanzate. La prima delle quali gli fu “vampirizzata” dal suo caro amico Bram Stoker. Si sposò, in seguito, con Constance Lioyd, dalla quale ebbe due bambine. A loro regalò due fiabe, tra le più belle mai scritte. La sua era un’omosessualità circostanziale. Era circondato da adulatori. Il fatto è che era affettivamente moralmente disordinato, debole, “goloso”, incontinente. Voleva provare tutto, senza negarsi nulla. Ma in carcere ammise che se il padre non gli avesse impedito di convertirsi, avrebbe avuto gli strumenti per vincere la tentazione. C’è un altro aspetto della sua vita, in genere omesso.
A quale si riferisce?
Con la moglie mantenne sempre un rapporto di tenerissimo amore. Nonostante gli amici continuassero a suggerirglielo, non volle mai divorziare. Lei fu tra le poche persone che andarono a trovarlo in carcere. Durante la prigionia del marito, Costance dovette trasferirsi. L’Inghilterra ipocrita e bigotta di allora non le avrebbe reso la vita facile. Andò a vivere a Bogliasco. E quando Oscar uscì, per prima cosa corse da lei. Ma mentre Wilde era in viaggio, Constance dovette sottoporsi ad un’operazione chirurgica alla schiena, al San Martino di Genova. Non fece in tempo a raggiungerla che, a Santa Margherita Ligure, gli comunicarono la sua morte.
Perché finì in carcere?
Sir Alfred Douglas, il discepolo-amante, odiava profondamente il padre, John Sholto Douglas, che a sua volta disprezzava Wilde. Quando Oscar ricevette da John un bigliettino che lo definiva ruffiano e sodomita, fu convinto dal giovane Douglas a denunciarlo per diffamazione. Si sentiva forte. Ma il caso volle che l’avvocato di Douglas fosse Edward Carson. Si tratta di quel Carson, ferocemente anti-cattolico e anti-irlandese, che architettò la divisione dell’Irlanda in sei contee separate, tra i primi a diventare primo ministro dell’Irlanda del Nord. La fama di filo-cattolico di Wilde ai tempi era già diffusa ovunque. Carson ribaltò il processo, portando in tribunale dei giovani che praticavano la prostituzione. Non riuscì a strappare una condanna per omosessualità, ma grazie alla loro testimonianza, tutt’altro che attendibile, ottenne per Wilde due anni di carcere, per atti osceni.
Dove scrisse il De Profundis…
Una lunga lettera indirizzata a Douglas, nella quale rilegge la sua intera esistenza. E benché sia caduto in disgrazia, non maledice nulla di quanto gli sta accadendo. Medita sul dolore. E intuisce che questo non avrebbe alcun senso, se non fosse la via per la salvezza. Salvezza che lui identifica – lo afferma esplicitamente – in Cristo. Eppure lo aveva incontrato tante volte. Ma tutta la sua vita fu caratterizzata da quell’assenza. Non si può dire che Oscar Wilde fosse un uomo tormentato. Risolveva tutto con una battuta. In pubblico portava una maschera, del resto era molto bravo a mentire. Ma, come tutti i clown , era molto triste. Avvertiva la mancanza di qualcosa. La nostalgia di quello che aveva sempre rifiutato.
(Intervista raccolta da Paolo Nessi)