«Bisogna vigilare che l’attuazione dell’accordo vada nella direzione giusta. Perché, sa, ho un forte sospetto…». Quale, professore? «Che siano le logiche sindacali a prevalere. Non sarebbe la prima volta». Angelo Panebianco, politologo ed editorialista del Corriere, tra i primi firmatari di appellogiovani.it, è diffidente, e non nasconde qualche preoccupazione. ilsussidiario.net gli ha chiesto un bilancio provvisorio dell’accordo raggiunto sabato scorso a Palazzo Chigi tra il ministro Gelmini e i firmatari dell’appello – sottoscritto da più di 14mila esponenti del mondo della scuola, dell’università, dell’impresa – per difendere il diritto dei giovani che vogliono fare il prof ad abilitarsi ed entrare nella scuola.
Il caso è noto e da quando è stato diffuso l’appello, è andato sulle maggiori testate nazionali. Per la verità tutto era cominciato un po’ in sordina, a scuola terminata e a fari spenti, nel giugno scorso. È allora che i giovani universitari hanno suonato l’allarme. Attenzione, dicono, perché il percorso abilitante – il corso di formazione specifica per diventare insegnante, da cominciare in università, con tirocinio formativo finale – previsto dal Regolamento voluto dal ministro Gelmini rischia di essere lettera morta. La sorpresa – ma forse è un eufemismo – è che il calcolo del fabbisogno, pensato su base regionale ma calcolato centralmente dal ministero, dà il via libera all’immissione in ruolo dei precari (più di 200mila) che stanno in graduatoria. Prima passano loro, poi entrano i nuovi. Cioè dopo sette anni, dieci nella peggiore delle ipotesi. Non posso – dice il ministro Gelmini – illudere i giovani. Ministro, noi non difendiamo alcun «diritto» all’assunzione, chiediamo solo di essere abilitati, dicono gli studenti in una lettera aperta che fa il giro di non pochi consigli di facoltà.
È così che l’accordo di sabato sancisce un punto d’arrivo importante, ma anche un nuovo punto di partenza, perché ora tocca agli atenei. Cambiano i numeri, e il principio. Ai 3mila posti in più riservati ai Tfa (per un totale di 13.285) si aggiunge la possibilità per le università gli atenei di «presentare piani formativi sulla base delle loro capacità di offerta».
In ogni caso, Panebianco invita a stare in guardia. «Occorre vedere come l’accordo verrà attuato, questo è il punto. L’altro era un “patto” chiarissimo: dentro i precari, e chi è fuori è fuori. Perché, scusi, il vecchio precariato che fine fa in questo quadro? Attenzione, perché il diavolo si nasconde sempre nei dettagli…». L’accordo però non è male, professore. Sono cambiati i numeri, e gli atenei dovranno dire la loro per ciascuna classe di abilitazione. Le circolari del ministero, uscite lo stesso sabato pomeriggio, parlano chiaro in questo senso. «Mi dia retta, aspettiamo di vedere. Anzi, occorre vigilare che l’attuazione dell’accordo vada nella direzione giusta. Non sto dicendo che non è un buon risultato, affatto. Sto solo dicendo che per capire se si aprono realmente dei canali per i giovani che intendono fare i docenti, bisogna davvero vedere come l’operazione sarà attuata. Le università presentano il loro piano, d’accordo. Ma il rischio è che bastino alcune locuzioni tecniche per ridare la priorità ai precari esistenti, a svantaggio dei giovani».
Panebianco parla con naturalezza di un’eventualità che non si vorrebbe contemplare. «I sindacati e con essi la base del ministero hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco alla mobilitazione che c’è stata, ma non sono affatto sicuro che non tenteranno di riproporre di nuovo, sotto altre forme, il vecchio assetto». Davvero attribuisce loro questa forza? «Abbiamo alle spalle decenni di relazioni, diciamo così, “costruttive” tra sindacati e ministero. Non si può non pensare che la storia non abbia il suo peso, no? Aspettiamo, sorvegliamo attentamente e riparliamone».
Da Bologna ci spostiamo a Milano. «Il comunicato finale che ho letto sul sito del Miur è una buona cosa, ma resta ancora molto da fare» dice a ilsussidiario.net Susanna Mantovani, pedagogista e prorettore dell’Università di Milano Bicocca, anche lei tra i primi firmatari dell’appello. «I momenti di crisi, se affrontati con coraggio, offrono sempre la possibilità, a saperla cogliere, per andare oltre il contingente, per pensare ad una soluzione più generale che guardi al futuro» dice Mantovani. «L’accordo è positivo e riguarda l’immediato, ma non affronta in modo definitivo il tema della formazione e del reclutamento».
Forse lei corre troppo, azzardiamo. «Condivido in pieno le preoccupazioni di Panebianco. Ma ci sono problemi che vanno comunque posti. Sono d’accordo con le istanze espresse nell’appello, ma sono anche a favore di abilitazioni completamente libere o quasi; purché il ministero controlli le strutture di ateneo che erogano la formazione. E glielo dico da ex preside di facoltà». La Mantovani invita ad essere più lungimiranti, ad «uscire dalla tenaglia» dice. A superare cioè le cattive alleanze, e le contrapposizioni, di sapore corporativo. «Voglio credere che siamo all’inizio di un discorso che riguarda finalmente tutti: studenti, dirigenti, sindacato, ministero. Abilitazione e reclutamento per esempio non possono essere pensate centralmente, in modo dirigistico, slegato dalle condizioni del contesto. È fondamentale quindi che le università facciano la loro parte, ma fuori anch’esse da un ottica corporativa, con proposte formulate secondo razionalità e buon senso».
La professoressa Mantovani saluta con favore l’accordo, ma guarda oltre l’abilitazione. «Dobbiamo andare verso forme di reclutamento che prevedano una vera autonomia delle scuole, temperata dal pubblico. Non ci sono alternative se vogliamo un sistema serio ed efficiente. Possiamo arrivarci con gradualità, studiando forme intermedie, senza correre subito allo spauracchio che abbiamo nella mente, il preside che sceglie chi vuole; no. Ma instaurando un’autonomia progressiva e reale, questo sì». Teme che ci siano chiusure? «Guardi, temo tutte le saldature corporative possibili, non solo quella del sindacato. È comprensibile che il sindacato difenda gli interessi dei suoi iscritti, ma mi piacerebbe che tornasse a svolgere la funzione importantissima che ha avuto negli anni 70 nel promuovere la cultura e la qualità dei nuovi servizi, come quelli all’infanzia per esempio. In anni più recenti invece, soprattutto nel campo della scuola, ho visto più una chiusura che l’apertura ad una positività culturale. Un vero peccato».