Pubblichiamo la lezione introduttiva della XVII edizione dei Colloqui Fiorentini, dedicati a Eugenio Montale, “eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto”, 22-24 febbraio 2018. Di Sara Aprili.
Il professor Valerio Capasa, all’incontro in preparazione a I Colloqui Fiorentini che si è svolto a Grosseto il 24 novembre 2017, diceva che davanti a un grande artista esclamiamo: “Come fa un poeta a mettere nei versi che sono suoi i fatti che sono miei?”. E se questo è vero per tutti i grandi poeti, è vero anche per quel Montale che ci ha accompagnato nel lavoro degli scorsi mesi. Talvolta, leggendo un verso, una parola, un accento suo, abbiamo sussultato sentendoci descritti, sentendo che le sue gioie erano le nostre gioie, le sue ferite le nostre, le sue paure le nostre, i trasalimenti del suo cuore anche un po’ quelli che fanno sussultare il cuore nostro.
Perché esiste nelle poesie di Eugenio Montale una dinamica che egli stesso guarda con stupore e meraviglia e che certo è capitata anche a noi. Il poeta vive, come spesso accade anche a noi, in una routine ripetitiva senza prospettive, il tempo è insignificante, meccanico, gira a vuoto. Quante volte all’inizio di una giornata, ci troviamo già stanchi, già annoiati, non aspettiamo più nulla, non ci sembra che valga neppure la pena iniziare la mattinata. Così descrive quei momenti Montale: “Il giorno languisce”, “la tetraggine m’assale e il vivere di ora in ora mi tortura”, “i minuti sono eguali e fissi come i giri di ruota della pompa”, “nel futuro che s’apre le mattine sono ancorate come barche in rada”. Ecco che il genio non è chi dice qualcosa di eccezionale, che nessuno ha mai provato, ma chi dice con parole eccezionali qualcosa che ciascuno di noi ha provato almeno una volta nella vita.
In questo stallo in cui “l’arco del cielo appare finito”, in questa “angoscia limbale sempre incerta”, il poeta cerca, per non essere ferito, di applicare l’ironico sarcasmo di Satura o la divina Indifferenza degli Ossi, assimilata all’apatia stoica o all’indifferenza beata delle divinità epicuree; divina, perché solo dagli dei è percorribile, per gli uomini sembra uno sforzo titanico e infine impossibile. Sempre risorgono infatti quel miele, simbolo di gioia, e quell’assenzio, simbolo delle ferite che la vita ci infligge, anche quando cerchiamo di zittirle dentro “un cuore che ogni moto tiene a vile“. Anche a noi è capitato di dire davanti a un ex amico o un ex ragazzo/a: “Faccia ciò che vuole! Non mi interessa!” E invece ci interessava, ci riguardava. E rinasceva e riprendeva vita la ferita iniziale. E scoprivamo di non essere dei, di non poter essere felici a comando, di essere solo uomini “C’è ancora qualche lume all’orizzonte e chi lo vede non è un pazzo, è solo un uomo”.
In questo fallimentare tentativo di distacco, il poeta non vive però rassegnato, privo di speranza, ma sempre proteso all’attesa di un fatto, “sono qui nell’attesa di un prodigio”, “L’attesa è lunga, il mio sogno di te non è finito”. Anche noi, anche nei momenti più bui o annoiati attendiamo che qualcosa accada: è quello che ci fa alzare di nuovo ogni mattina, che ci fa affrontare di nuovo la giornata di scuola, perché aspettiamo che qualcosa cambi. Il miracolo laico è, come lo definisce Montale stesso, “il fatto che non era necessario”, o ancora “la vita che rompe dal suo insopportabile ordito”, un imprevisto che rompe una trama già decisa, una decisione già presa, la nostra battaglia routinaria quotidiana. Il trasalimento, un’ondata di vita spesso accompagnata dal correlativo oggettivo del vento, è appunto il prodigio che accade e fa nuove tutte le cose: è il giallo dei limoni da un mal chiuso portone, è “la Corsica dorsuta e la Capraia” che si mostrano in mezzo alla nebbia marina di Casa sul mare, è “il colpo di fucile” nel silenzio della campagna in Mia vita, è la nuvola grandiosa in un agosto canicolare in Ora sia il tuo passo, è un imprevisto in Prima del viaggio. Alcuni trasalimenti accadono e altri, come il girasole, sono portati dalla persona amata.
Il grande poeta Mario Luzi così commentava questi trasalimenti montaliani: “Tutti sanno come [la poesia di Montale], nella sua ansia di afferrare una sostanza più che soggettiva e più che emozionale, si impunti e si affissi in certi particolari fulmineamente investiti di senso e come sia divenuta maestra nel demandare alla loro perentoria enigmaticità tutta l’eloquenza del significato”. Sono gli accadimenti, una nuova amicizia o un innamoramento, in cui tutto ricomincia, in cui tutta la routine scompare, in cui il buio si illumina e finalmente ci mette “nel mezzo di una verità”.
A dispetto dei critici che hanno bollato gli Ossi di Seppia, parlando di poetica della negatività, Montale ci mostra una speranza sempre insorgente, mai completamente sopita, a cui dà forma attraverso gli oggetti che dal varco nel muro con “in cima cocci aguzzi di bottiglia” ci raggiungono. “In tanti casi infatti, magari sotto una negazione amaramente scettica, sembra che tremi, sottointeso o alluso o oscuramente simboleggiato, un altro inconfessato pensiero o desiderio”: che si conclude magari con una preghiera alla donna immaginata morta precocemente: “Prega per me allora ch’io discenda altro cammino che una via di città, nell’aria persa, innanzi al brulichio dei vivi; ch’io ti senta accanto; ch’io scenda senza viltà”. Negli altri Ossi la preghiera era stata inversa: era stata del poeta alla donna perché fosse lei a superare il muro, scoprire il varco, trovare l’anello che non tiene, disbrogliare il filo, ma tale strada era percorribile solo dalla donna, il poeta non se ne sentiva degno: “Cerca una maglia nella rete che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! Va, per te l’ho pregato, — ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine….
Il trasalimento invece ha un movimento contrario, non da dentro la prigione a fuori, ma da oltre il muro verso di noi in modo gratuito. L’accadimento infatti non nasce mai da uno sforzo dell’uomo, ma è quello che abbiamo definito prodigio, miracolo laico, trasalimento del cuore: ci si offre uno sbaglio di Natura da cui penetri per noi e per tutti gli altri uomini la salvezza. “Un glorioso affanno senza strepiti ci batte in gola: nel meriggio afoso spunta la barca di salvezza, è giunta: vedila che sciaborda tra le secche, esprime un suo burchiello che si volge al docile frangente — e là ci attende”. Non è qualcosa che io devo sforzarmi di afferrare, ma qualcosa che afferra me, nella mia quotidianità arida e stantia.
Montale ci ha infatti fatto scoprire che c’è, nella trama insensata del mondo, un luogo, un momento in cui si schiude il sospetto di un’eccezione significativa al non sense: un luogo, come diceva ancora Capasa, dove vanno a finire i palloni sfuggiti alle mani dei bambini, dove il cavallo non stramazza, un punto miracoloso dove i destini non falliscono, i conti tornano, le domande hanno risposta.
Interessante sarebbe allora chiederci se dopo il giallo dei limoni, dopo le isole all’orizzonte, dopo il colpo di fucile o dopo la pioggia, dopo il girasole impazzito di luce tutto torni come prima, se insomma tutto svanisca. Cioè la realtà, una volta ridestata, e la routine, una volta infranta, tornano in nulla? Nelle città rumorose andremo cercando dal prodigio in poi sempre il giallo dei limoni? Nell’orizzonte nebbioso sapremo che si celano la Corsica e la Capraia? Gli uccelli con il colpo di fucile saranno volati per sempre e la pioggia avrà riportato la vita nella nostra terra bruciata dal salino? “Questo pezzo di suolo non erbato s’è spaccato perché nascesse una margherita”. Dopo un grande innamoramento cosa cambia quando la storia d’amore è finita? Dopo il trasalimento, l’uomo guarda ora la realtà con una tensione nuova, pur nella sua consueta quotidianità? L’imprevisto avrà cambiato per sempre la modalità del mio viaggio?
E quando la realtà “esce di squadra”, l’uomo come può reagire? Ci sono in Montale e in noi sempre due atteggiamenti possibili. Uno è quello di Arsenio: alter ego e proiezione del poeta, che davanti al trasalimento, pur desiderandolo, non riesce a salpare, è “della razza di chi rimane a terra”. Arsenio (significativo che la prima metà del nome richiami Arletta e la seconda metà ricalchi quello di Eugenio) si protende, ma l’attimo passa, il miracolo breve fallisce e tutto lo riprende “in una sola ghiacciata moltitudine di morti”. L’altra possibilità è invece quella di Esterina Rossi, protagonista di Falsetto, anch’ella protesa, ma lei della razza di chi riesce a salpare, di chi “come spiccata da un vento” s’abbatte fra le braccia del nostro divino amico che la afferra. E noi, tra Arsenio ed Esterina, chi riusciremo a essere?
Vi auguro in questi tre giorni che i Colloqui possano essere per voi questo trasalimento, questa possibilità nuova, e che voi possiate salpare, perché se è vero che la vita è un travaglio, è vero che non c’è travaglio senza che nasca una nuova vita che vince la rassegnazione.