Tutti dottori? Tutti laureati? Questa è la ricetta che con cocciutaggine da anni l’OCSE propone ai governi, alla politica, ai ministeri dell’istruzione pubblica, ai media ogniqualvolta pubblica una versione dell’insieme d’indicatori internazionali noto con l’acronimo EAG (“Education at a Glance”). Da diversi anni, l’interpretazione proposta dall’OCSE non varia: promuovere l’istruzione scolastica, ampliare il sistema scolastico, espanderlo, tutti a scuola fino alla laurea e magari oltre, anzi, a scuola per tutta la vita: la popolazione adulta dovrebbe essere in permanenza composta di allievi, senza mai chiedersi se il sistema scolastico così com’è sia adeguato, senza quasi mai interrogasi sulla qualità delle scuole e del personale scolastico. Se succede, lo si fa di sfuggita.
Si suppone che tutto sia buono e più scuola c’è , meglio è. Un messaggio del genere è una manna per i sindacati degli insegnanti che ovviamente gongolano di fronte a un riconoscimento così autorevole. I governi però fanno di testa propria, hanno altre gatte da pelare e, come si è visto in questi ultimi mesi, invece di spendere di più per la scuola che c’è spendono di meno, riducono le risorse per l’istruzione. Qualcosa non funziona, ma l’OCSE non aiuta affatto i governi o i responsabili scolastici a capire cosa.
“The cost to individuals and society of young people leaving school without a qualification keeps rising” ha affermato il segretario generale dell’OCSE Angel Gurría alla presentazione dell’insieme d’indicatori martedì 13 settembre, ma senza specificare di quale scuola si tratta, della scuola di stampo ottocentesca oppure di quella sociocostruttivista oppure di quella postmoderna imperniata sulle TIC? L’OCSE non lo dirà mai perché non vuole sbottonarsi, non ha le competenze necessario per andare a fondo, non è nel suo stile. Si resta nel vago e si diffondono messaggi polisemici.
Questa considerazioni non svalorizzano il lavoro prodotto. EAG è una miniera d’informazioni e di dati favolosa, unica al mondo, curata in maniera esemplare, presentata in modo affascinante, sulla quale però occorre lavorare molto. Discutibile invece è la lettura dei dati che traspare dai commenti e dall’impostazione generale del volume. L’OCSE vende un modello d’istruzione obsoleto e non ci si deve affatto lasciare ingannare dalla veste statistica molto raffinata, dai calcoli, dalle tabelle densissime, dai grafici esteticamente seducenti, taluni dei quali sono talmente raffinati da essere difficilmente comprensibili. Più sono incomprensibili più sembrano giusti e credibili. I dati però sono pubblici. Questo è il grande merito dell’OCSE. Tutti possono accedervi e lavorarci sopra.
L’OCSE è favorevole alla scolarizzazione di massa fino ai 24 o 25 anni. L’OCSE non propone obiettivi del genere, ma indirettamente si capisce che l’educazione secondaria di secondo grado deve ormai essere generalizzata e che più alto è il tasso di matricole e di laureati migliore sarebbe la vita di tutti quanti e l’andamento dell’economia. Al contrario, meno si studia peggio va per tutti: il rischio di disoccupazione diventa elevatissimo, il rischio di un aumento della criminalità pure, il rischio di cadere nell’estrema povertà cresce, la perdita di profitti finanziari per i governi diventa elevata, l’economia ne soffre.
Queste sono solo alcune conseguenze illustrate dai dati trattati dall’OCSE. Se non si investe nella scuola l’apocalisse si avvicina a grandi passi. Per evitarla occorre scolarizzare la società a spron battuto. Ma quale scuola? Questa è la questione. L’OCSE parla d’istruzione terziaria, ma l’istruzione terziaria non esiste ovunque. Per esempio in Italia è del tutto embrionale. In Italia c’è una gran quantità di università le quali non sono che un tipo di formazione terziaria (tra l’altro nemmeno eccellente come dimostra la classifica mondiale della qualità delle università), ma per altre modalità di formazione terziaria non universitaria si è solo ai primi vagiti. Cosa significa dunque il messaggio dell’OCSE per l’Italia?
Il nodo della tesi dell’OCSE è la connessione tra livelli d’istruzione scolastica e mercato del lavoro. Si suppone che esista una stretta correlazione, anzi un’interdipendenza tra queste due strutture, un rapporto automatico quasi. Il diploma scolastico funzionerebbe come un passaporto per entrare senza ostacoli nel mondo del lavoro, ma tutti sanno che non è affatto così. In certi casi, per fortuna, la relazione funziona, mercato del lavoro e istruzione scolastica sono in sintonia, ma in altri casi no. Per esempio i confronti internazionali non consentono di sostenere che esiste una correlazione forte tra livello d’istruzione dei giovani e tassi di disoccupazione giovanile. Portogallo e Paesi Bassi hanno per esempio giovani meno formati ma anche meno spesso disoccupati, mentre la Spagna ha scelto di seguire l’OCSE e di promuovere l’accesso al settore terziario senza però constare un calo della disoccupazione giovanile.
Il mercato del lavoro funziona secondo una logica propria che non è quella che governa l’istruzione scolastica. Si può deplorare questo stato di cose e tentare di correggerlo, ma quale di questi due mondi è il più malleabile? Dove intervenire? Cosa modificare? Se ci si pensa un attimo ci si rende conto subito che non è affatto semplice trovare un appiglio. Se ci fosse, avremmo già la soluzione, e il problema della disoccupazione giovanile e dei NEET, ossia dei giovani che non vanno a scuola, che non cercano lavoro, che sopravvivono negli interstizi dello stato sociale e della società della conoscenza, che vivono di lavori precari, occasionali, sarebbe forse meno grave di quanto traspare dalle analisi dell’OCSE. Ma siamo distanti anni luce da questo mondo ideale.
Se ne discute da decenni, anche all’OCSE, tra economisti, sociologi e educatori. Gli educatori però persistono a difendere il proprio modello: ci vuole più scuola, ci vogliono più specialisti, più laureati. Teniamo dentro la scuola con ogni mezzo tutti, il più a lungo possibile. La terapia è l’indigestione di scuola. Forse sarebbe ora di cambiare musica. Di una cosa si può essere certi: la forte espansione dei sistemi scolastici non è un fattore di crescita o di riduzione della disoccupazione giovanile. I ritmi di crescita delle economie non ricalcano il ritmo di espansione dei sistemi scolastici o di crescita del livello d’istruzione delle fasce d’età giovanili.
Infine un’ultima osservazione. L’insieme d’indicatori dei sistemi scolastici prodotti dall’OCSE ha un’altra peculiarità: invece di mettere in evidenza i disfunzionamenti dei sistemi scolastici, insiste sempre più sui contributi della scuola alla società, alla vita economica e al benessere sociale. L’OCSE è obnubilata dalle ricadute sociali dell’istruzione forse perché non è semplice risolvere una questione come questa, la quale è senz’altro rilevante ma non è la sola che si pone alle politiche scolastiche. I luoghi nei quali si svolge l’istruzione, il personale coinvolto, i curricoli, restano una scatola oscura per l’OCSE.
Per esempio l’OCSE dovrebbe possedere le informazioni sull’evoluzione della proporzione tra personale insegnante e altro personale scolastico, ma quest’indicatore che negli anni 90 aveva suscitato molto scalpore e che sarebbe alquanto utile a conoscere quanto succede in Italia, è scomparso dalla scena. Non sappiamo più se la proporzione degli insegnanti aumenta o diminuisce rispetto alla proporzione del personale non insegnante nelle scuole. Agli inizi degli anni 90 la tendenza era verso una diminuzione della proporzione degli insegnanti rispetto al totale del personale di una scuola. A che punto siamo ora? Il personale scolastico non insegnante – ossia il personale ATA – come è composto? Quante categorie si possono recensire? Ecco un tipo d’informazioni scomparso da EAG, un volume di per sé ben fatto, encomiabile, ma che forse si è perso per strada.