Ci vuole coraggio a programmare una serata di musica antica in Duomo a Milano. Spesso si dice che la musica classica sia musica di nicchia, per un élite, e, se già i vari Haydn, Mozart, Schumann soffrono, figuriamoci compositori come il chiarissimo musico Matteo da Perugia e altri suoi contemporanei!
Pensando al solito pubblico ristretto (spesso arrivare a 500 persone è un’impresa) il rischio flop in Duomo era altissimo. Ma così non è andata. La navata centrale del Duomo si è in poco tempo riempita, dall’ingresso fino all’altare. E non era il pubblico di “persone di classe” che spesso si vedono in altre stagioni concertistiche, anche se c’erano anche loro, beninteso: molti giovani e parecchie persone capitate lì per curiosità. Un altro successo per questa sfida.
Passiamo ora alla serata, che inizia in fondo al Duomo, con un’estampida, una danza medioevale. Si prosegue poi con un programma che intreccia brani monodici ambrosiani e composizioni polifoniche riferibili al periodo fine ‘300 inizio ‘400.
Vi sono brani solo strumentali, vocali e misti. La scelta è quella di dislocare in quattro luoghi diversi gli esecutori: il gruppo principale (il coro maschile con contratenores, organo e altri strumenti) davanti all’altare, un gruppo solo strumentale in fondo, il coro di voci bianche circa a metà, e i due esecutori di campane a tre quarti della chiesa.
Inevitabile che quando suonava un gruppo lontano era difficile sentire bene e, questo è stato, dal mio punto di vista, il punto debole della serata.
Per quanto riguarda la musica mi preme rilevare solo tre punti. Il primo: la bravura degli esecutori che si sono confrontati con una musica non certo facile (i mottetti medioevali sono infatti tra le costruzioni più raffinate e complesse dell’intera musica occidentale).
Il secondo è il fatto che si tratta di musica comunicativa e coinvolgente, capace di evocare atmosfere veramente particolari.
Il terzo è che si percepisce nella musica la cultura e lo spirito dell’uomo medioevale, l’amore per l’ Ars Musicae (la scienza musicale), il senso del sacro che pervade anche il profano e la gioia vitalistica del profano che investe il sacro.
Le differenze tra un mottetto sacro e uno profano sono veramente minime, tant’è che spesso si manteneva la musica uguale e si cambiava solo il testo. Facciamo uno sforzo di immaginazione, e pensiamo a un Sanctus con la melodia di Come mai degli 883, oppure a un Bruce Springsteen che canta un suo testo sulla melodia di un Kyrie.
Questo ci dà la distanza della nostra cultura così precisamente divisa in settori da rischiare di essere schizofrenica da quella medioevale, che era talmente unita in tutti gli aspetti della vita da risultare forse un po’ confusa, ma di certo molto affascinante.
(Francesco Pasqualotto)