Gioele Dix, “Se potessi mangiare un’idea”: una serata gaberiana intelligente che da lezione-spettacolo sperimentale (l’anno scorso nell’Aula Magna della Statale di Milano) è divenuta un vero e proprio appuntamento di teatro canzone. Il primo della terza edizione di Milano per Giorgio Gaber, che grazie alla Fondazione Gaber ha in carnet Maddalena Crippa (2 e 3 dicembre al Piccolo), Paolo Rossi (9 dicembre alla Statale) Enzo Iacchetti (13 dicembre al Parenti) e infine Claudio Bisio (14 dicembre allo Strehler).
Dix inizia con I borghesi, il suo Gaber del cuore adolescente, ma poi ci regala una sapida tirata polemica sul mondo dei cantanti che è tutta farina del suo sacco. Un incipit perfetto in compagnia dei due maestri Silvano Belfiore e Savino Cesario, tastiere e chitarra, che da subito si mostrano raffinati complici dell’artista.
È sabato è ancora sarcastica e vera, e di Ora che non son più innamorato, così amara da non poter più pronunciare la parola amore, Dix coglie il fondo struggente pronunciandone un’altra ancora più vera: dolore. Perché la novità è questa: alle grandi canzoni che ha scelto in libertà, predilezione e originalità, l’artista milanese aggiunge dei suoi pungenti monologhi, restringendo il ripasso di quelli gaberiani a poche, insolite scelte.
L’identificazione con la sensibilità gaberiana dunque la attua mettendosela adosso, caricandola elettricamente della propria sensibilità. Il corpo stupido è precisa, nel riproporla c’è gusto, intelligenza e sincerità.
L’agrodolce assoluto, geniale, attualissimo de L’odore è riproposto secondo corde nuove e personali. Gli ostacoli vocali – perché questo repertorio era frutto e strumento di un grande cantante – sono aggirati insieme con furbizia e umiltà.
Acuta la riflessione dixiana sul paragone fra il presuntuoso ma prezioso “messaggio” del Sessantotto e i mille “messaggini” inutili che ci offrono oggi le compagnie telefoniche. Cui segue una finalmente appassionata e intellegibile versione di Qualcuno era comunista e la somma finezza anche musicale (quasi un diamante quel finale a tre voci su “democrazia”) de Le Elezioni. E che dire della scelta controcorrente e sommamente attuale de L’azalea e Il potere dei più buoni? «A S.Francesco non piacevano le azalee del nostro patetico buonismo, ma i lupi»: il richiamo da solo vale l’intera serata.
De La razza in estinzione Gioele dà una stupenda, drammatica interpretazione, e anche Dove l’ho messa diventa completamente sua. Bellissima infine l’idea di chiudere con la speranza misteriosa de L’attesa: «No, non muovetevi/ c’è un’aria stranamente tesa e un gran bisogno di silenzio/ siamo come in attesa./ Perché da sempre l’attesa è il destino di chi osserva il mondo/ con la curiosa sensazione di aver toccato il fondo./ Senza sapere se sarà il momento della sua fine/ o di un neo-rinascimento».
Per finire il Sessantotto naif de Un’idea e per bis il blues evergreeen de Lo shampoo. Una bella serata che dal Teatro Studio riparte in giro per la penisola.
Un’idea di teatro canzone limpida e sincera, che parte da Gaber e Luporini ma arriva a raccontare molto di sé, senza mai spocchia né retorica. Noi amiamo Gaber; Dix ama Gaber; noi amiamo il suo Gaber, che ce lo fa ritrovare vivo e vegeto per l’oggi. Cosa’altro chiedere?