Lo ammetto: bisogna scavare nella memoria e bisogna farlo bene, per amare ancora gli Area. Occorre un certo impegno per cercare di capire se qualcosa di contemporaneo è rimasto nell’esperienza sonora di una band travolgente che il destino ha comunque “relegato” al suo periodo epico, cioè alla presenza tra le sue fila di Demetrio Stratos. Un’operazione non facile. Un’operazione disincantata.
C’ero a un concerto degli Area a Lodi, anno 1973. C’ero poi al Parco Lambro nel giugno ’76, a una delle loro esibizioni rimaste negli annali del rock italiano. E non volevo perdermi – lo scorso 29 gennaio, al teatro Itc di San Lazzaro di Savena – una delle ormai rare occasioni in cui Patrizio Fariselli, Paolo Tofani e Ares Tavolazzi si ritrovano per fare musica live insieme.
Per andare sul sicuro mi son portato dietro un amico musicista che di Area sapeva ben poco, in modo tale che potesse anche lui offrire uno sguardo freddo della momentanea ricostituzione. Insomma: volevo un arbitro non di parte per una reunion speciale.
Ci siamo trovati in un piccolo teatro affollato di gente. Negli anni le strade dei tre Area “sopravvissuti” si sono incrociate raramente: Tavolazzi suona con i migliori cantautori italiani (da Conte a Guccini), Fariselli passa dall’insegnamento musicale alla composizione di musiche per l’infanzia (era il musicista dell’Albero Azzurro), Tofani esprime se stesso nella ricerca spirituale e composizione musicale buddista.
Quando il concerto inizia, si capisce che sul palco giocano a incrociare le proposte musicali, evitando il “tutto e subito”. Così la prima parte della serata vede i tre presentarsi da soli, ognuno alla prese con espressioni strumentali solistiche, melange di suoni, elaborazioni elettroniche, trascinamenti ritmici. Seduto a un pianoforte a coda e con l’ausilio di un moderno synth, Fariselli, gioca tra jazz e armonie, mentre Tavolazzi si diverte con un contrabbasso a cui vengono applicati un sequencer e un delay, per rendere più complete le possibilità dello strumento.
Il più funambolico, ovviamente, appare Tofani, che si presenta in scena con un liuto indiano, il Tri-Kanta Veena, progettato e interamente realizzato da lui stesso, e con un santoor originale. E si capisce subito che i vecchi Area fanno sul serio e sono vivi “oggi”. L’amico musicista, di fianco a me si compiace…
Il concerto entra nel vivo e – visto che l’età è quel che è si percepisce che l’assalto sonoro, marchio di fabbrica della band, non è più così marcato: ha preso il suo posto un gusto sonoro affascinante e maturo, fraseggi che piacerebbero a Robert Fripp o John Zorn, scorribande che ancora occhieggiano al free jazz. Anche dal punto di vista dell’atmosfera la serata potrebbe infilarsi sui binari della nostalgia rivoluzionaria, della celebrazione degli assenti o della retorica dei bei tempi andati. Invece, niente di tutto questo.
Sin dai primi istanti Tofani rompe il ghiaccio (e scioglie la tensione): la sua chitarra è funambolica come e più di prima, come pure la sua ironia. Fariselli, pianista di enormi virtù, gioca con il pubblico e butta lì la battuta sugli altri e su di sé (presentandosi di volta in volta come Karl Marx o Mickaijl Bakunin).
I pezzi noti si alternano a melodie ed elaborazione nuove: ovvio che il piccolo teatro bolognese si apre in un’ovazione quando Fariselli conduce il ritmo che porta ad Arbeit macht frei, e illuminante l’introduzione di Tofani a Luglio, agosto, settembre (nero): “Questo è un pezzo che suonavamo in una fase sociale e politica molto particolare: speriamo che vi piaccia ancora”.
C’è un po’ di ironia e di leggerissimo distacco nei tre e così Gioia e rivoluzione (ora in concerto è senza parole, ma ai tempi di Demetrio così inneggiava: “Canto per te che mi vieni a sentire/ Suono per te che non mi vuoi capire/ Rido per te che non sai sognare”) diventa un bluesy lento e pieno di feeling, mentre La mela di Odessa (storia dell’affondamento di una nave tedesca da parte di rivoluzionari russi), parte con debordante vivacità funky con Tofani che canta “gorgheggiando” alla Stratos.
E mentre tutta la musica di questa serata unica fluisce, si conferma una certezza: questi erano e sono musicisti inarrivabili. Certo, c’era la politica. Certo si andava ai concerti con il pugno chiuso, senza quasi nemmeno ascoltare melodie rock con influenze arabe, soluzioni artistiche e cambi di ritmo. Certo bastava metterci di mezzo la parla rivoluzione e tutto diventava artisticamente accettabile, pure le fregature. Il tempo ha giudicato, ma gli Area erano musicisti con i fiocchi e in concerto l’han riaffermato anche trent’anni dopo, con tre decenni sulle spalle trascorsi a suonare, a continuare a migliorare, anche lontano dalle grandi platee (Tavolazzi a parte).
Nulla di enfatico, nel loro presente: i tre sono terribilmente sobrii (è proprio il termine che l’amico musicofilo usa e sotto sotto capisco che si è divertito, lui che al tempo degli Area preferiva ascoltare la PFM) e ancora capaci di sperimentare, di assommare suono acustico a soluzioni sintetiche, rivelando una contemporaneità sconosciuta a tantissimi. Altro che dinosauri, definizione che di solito si applica ai vecchi che ritornano sul palco (soprattutto tra gli Usa e l’Inghilterra) e che risulta fuori luogo. Qui bisognerebbe invece chiedere a gran voce che la reunion continuasse, si ripetesse, perché finalmente quella musica e quelle musiche, forse finalmente libere da vincoli e colori, si facessero ascoltare ed apprezzare.
Tutto finisce con un pezzo di Tofani dedicato a Demetrio, una ode krishna “in cui tutto ruota intorno all’amicizia che avrei potuto dare a Demetrio nei momenti della sua maggior sofferenza”, un momento intenso, non importa se riuscito o meno, un omaggio degli Area al loro volto simbolico. Ode di mancanza e impotenza in un concerto in cui c’era tutto tranne – e che ci si poteva fare? – la voce. Quella voce.