È un concerto che, più che un concerto, ha il sapore della testimonianza. Per la prima volta in Italia – pare impossibile si sia dovuto aspettare tanto e allora un grazie alla Barley Arts agenzia di concerti per aver osato tanto, vincendo la scommessa – Kris Kristofferson, 74 anni. Portati benissimo, peraltro: tanti solchi di rughe nel viso, ma un fisico asciutto, un portamento fiero, il lungo capello bianco e l’elegante pizzo anch’esso bianco. È una testimonianza, quella di questa sera: di un modo di intendere la canzone, di intendere la vita. Di quelli che sono venuti prima, che hanno condiviso un pezzo di strada e poi se ne sono andati.
Un nome su tutti, Johnny Cash, che tante canzoni di Kris Kristofferson ha inciso e tanti concerti insieme hanno condiviso. Una razza, quella di questi – come li chiamerebbero in America – hardcore troubador che sta lentamente ma inesorabilmente sparendo dalla faccia della terra. E allora chi c’è ancora, chi se la sente di andare in giro per il mondo, come questa sera Kris Kristofferson, non fa un concerto, ma rende una testimonianza.
Per quale altro motivo, visto che i soldi non mancano a uno le cui canzoni sono andate in testa alle hit di mezzo mondo e che è anche attore hollywoodiano, venire fino a Vigevano, in mezzo a stormi implacabili di zanzare – “mosquitos” come li chiama lui? Solo per rendere testimonianza alla Canzone con la C maiuscola e far sì che la gente la possa ancora ascoltare. Prima che scompaia del tutto nell’imbarbarimento e impoverimento di un mondo fatto ormai solo di iPhone, iPad, iTunes e compagnia (inutile) bella. Dove quello che manca è la carne e il sangue. Ma non stasera, a Vigevano.
Lui la chitarra, Kris Kristofferson, la strimpella alla bene e meglio. Sul palco è da solo, la chitarra appunto e un’armonica. E la voce. Stentorea, certo, qualche stonatura che mai intonatissimo non lo è stato neanche da giovane. Ma una voce che comunica gli abissi dello spirito come pochissimi altri. E che sfracello di canzoni memorabili. Solo il concerto di Leonard Cohen un paio di anni fa – altro concerto che fu testimonianza – o certe serate di Bob Dylan quando è in buona vena, possono raggiungere questi vertici di una canzone che è poi preghiera.
Ringraziamento anche, come dice lui stesso e canta a fine serata nel brano Thank You: “Grazie per una vita che chiamerei felice (…) grazie per quel sole incandescente che sta sorgendo, grazie per questo lontano e vuoto orizzonte che si apre a una nuova eternità”.
Gratitudine dunque per essere ancora qui e in ricordo di chi non c’è più: Janis Joplin, che viene citata nell’immortale Me and Bobby McGee. Ma anche dolore, profondissimo, seppure lasciato alle spalle, ma le ferite non si chiudono mai veramente, ed è la quasi insostenibile tristezza cosmica di un brano come Casey’ Last Ride o la dolcezza infinita di For the Good Times, canzoni che esprimono la malinconia immensa di relazioni alla fine ma con il desiderio umanissimo – impossibile – di un momento, uno solo, ancora da condividere. E ti viene da chiedere: ma come mai nessuno scrive più canzoni come queste?
Prima di lui sul palco un figlio d’arte, Harper Simon, figlio di quel Paul che era la metà di Simon & Garfunkel, aveva aperto la serata. A fine del suo set chiama Kris Kristofferson e i due insieme rendono omaggio a Johnny Cash con una sentita interpretazione di Folsom Prison Blues. Tre generazioni di musicisti, una delle quali lassù dal cielo, che si incontrano e si sorridono. E’ una intensità che si tocca con mano, questa sera, una comunione fra l’artista solo su quel grande palco nella cornice imponente del Castello Sforzesco che lo ospita, e che trasuda anch’esso eternità. Un monumento (della canzone) in mezzo a un monumento, il castello.
Ci sono brani che Kris Kristofferson questa sera fa su richiesta, come Sandinista, episodio del suo momento di impegno politico nei caotici anni 80, con alcuni versi recitati in spagnolo, e ci sono momenti di caustico divertimento da honky tonk, come Silver Tongued Devil, il diavolo che si nasconde dietro ogni tentazione. C’è la solitudine palpabile della sempre straordinaria Sunday Mornin’ Comin’ Down, portata al successo da Johnny Cash, dell’artista che si divide fra desiderio della sua libertà e quello di una famiglia che lo riaccolga a sé. E c’è anche la battuta facile, “America, la terra della gente libera che ha il più alto numero di persone dietro le sbarre di qualunque altro paese al mondo” dice a un certo punto, e poi ricordandosi di essere stato anche lui un marine, dedica un brano ai soldati impegnati in Iraq e in Afghanistan.
Sono le ultime canzoni, e adesso siamo tutti in piedi sotto al palco. Vorremmo che questi momenti non finissero mai, e anche lui deve sentire qualcosa del genere, visto che il concerto lo chiude con la dolce Please Don’t Tell Me How the Story Ends, per favore non dirmi come va a finire. No, non lo vogliamo sapere. Che la storia di queste canzoni immortali, per favore, non abbia mai fine. Se deve finire, non ditecelo.
Dopo il concerto, un incontro fugace per pochi privilegiati con l’artista. In mezzo al salone del castello, un piccolo set hollywoodiano, i fotografi a fare da muro e lui che ci accoglie uno per volta. Una stretta di mano vigorosa, un abbraccio, poche parole. Di ringrazimento, ancora una volta. Non ci sarà un altro Kris Kristofferson, di sicuro. E se mai mi avessero detto un giorno che una sera, a Vigevano, nel 2010 avrei stretto la mano di Kris Kristofferson, avrei scosso la testa cinicamente. Invece la vita va dove deve andare, e le cose accadono.