Direzione della serata “La Maroquinerie”, The Tallest Man on Earth fa tappa nella capitale francese. Sono dalle parti di Place de la République, cuore della Parigi storica e del commercio, non lontano da Boulevard Voltaire luogo ormai a me noto per la presenza de “Le Bataclan”.
Lungo la strada mi imbatto in un viso forse familiare. Un ragazzotto con la barba folta e dal viso candido. Lo riconosco, ma non riesco a inquadrarlo. Ho il tempo per fargli una veloce radiografia e noto al collo un badge raffigurante l’album “Helplessness Blues” e la scritta Fleet Foxes. Ma certo, si tratta del cantante e leader della band di Seattle.
D’altronde ormai lo scenario musicale folk rock è costellato di personaggi che sembrano usciti direttamente dal Fillmore East e dalla Summer of Love. Fossero state le barbe bibliche e i capelli arruffati dei Midlake non avrei avuto esitazioni. Si parla invece di Robin Pecknold, il nome lo ricostruisco un attimo dopo con l’aiuto da casa. Un amico incollato al telefono stava giusto aspettando la mia chiamata. Accendo la risposta e fermo Robin per un breve saluto, una foto improvvisata con il BlackBerry e quattro chiacchiere: “Ci piace un sacco l’Italia, vorremmo tornare, potrebbe essere a novembre (i Fleet Foxes faranno realmente tappa in Italia a novembre per tre concerti: il 17 a Roma, il 19 a Bologna e il 20 a Milano, ndr).
Stasera suoniamo a Le Bataclan. Il suono “B-A-T-A-C-L-A-N” mi rimbalza in testa come un pinball impazzito. Non me lo faccio ripetere due volte. Non me ne voglia lo svedesino The Tallest Man on Earth, ma ormai si è creato un fil rouge con la “Salle de Spectacle Mytique” che si trova lì a pochi passi. Il concerto è sold out da mesi, almeno così è indicato a chiare lettere all’ingresso del locale. Non nutro grandi speranze, l’attesa è tanta e i ben informati mi dicono che i biglietti sono andati esauriti da parecchio tempo. La sola speranza sembra essere quella di rivolgersi ai bagarini, che da come si muovono e gestiscono il traffico, sembrano meglio organizzati di Ticketmaster.
Come temevo il prezzo richiesto è spropositato. Sto per abbandonare quando, anticipato da un fascio di luce, mi si presenta un angelo chiamato Laurent che mi consegna il suo biglietto a prezzo di costo. Lui ha un altro appuntamento, deve vegliare su Roger Waters che quella stessa sera sarà al Palais de Bercy per eseguire l’ennesima replica di “The Wall”. Ognuno ha il suo compito nella vita.
Lo scenario che mi si presenta all’ingresso de “Le Bataclan” è apocalittico: via tutte le poltroncine dal parterre e spazio alla calca festivaliera a ridosso del palco. L’antipasto è dei più ghiotti. A proposito di barbe profetiche e di chiome fluenti ecco che di soppiatto si presenta sul palco Josh T. Pearson. Il suo esordio è esilarante “I’m not a Fleet Foxes”! Il caldo in sala è soffocante e Josh non manca di ricordare la sua provenienza, il Texas, e le similitudini climatiche.
L’ascolto non è semplice, ma fin da subito chitarra e voce costruiscono un viaggio introspettivo di rara intensità. Dopo la prima canzone, una semplice richiesta: “Vorrei una birra per cortesia”. Incuranti, la sua implorazione rimarrà inascoltata per l’intera durata del breve set in cui riuscirà a riproporre in maniera straziata e dilaniata solo quattro tracce provenienti dall’acclamato “Last of the Country Gentlemen”. La registrazione dell’album è avvenuta nell’arco di due soli giorni in uno studio amatoriale di Berlino.
Il disco contiene, in sette tracce, di cui quattro della durata di oltre 10 minuti, tutta la tristezza derivante dalla fine di una serie di relazioni sentimentali e il dramma dell’impossibilità di aiutare una persona amata. Tutto il disco suona come una disperata preghiera di implorazione di perdono. La versione live non fa che amplificare questo grido. Sebbene non venga rispettato un rigoroso silenzio, quanto meno Josh riesce a catturare curiosità e attenzione da parte del giovane pubblico presente in sala. Josh T. Pearson dimostra di essere una persona divertente e amichevole anche giù dal palco: “Ci rivediamo in Italia, tornerò in agosto per un festival in Sicilia, almeno così credo…”.
La sua incertezza potrebbe avvalorare le dicerie sulle conoscenze geografiche degli americani (sono più europeisti degli europei, spesso tendono a considerare il Vecchio continente come una sola cosa). Ci salutiamo e si allontana alla ricerca di conferme dal suo Road Manager. Tutto confermato: Josh T. Pearson sarà nuovamente in Italia durante l’estate: a Ferrara e al Ypsigrock Festival di Castelbuono (Palermo).
Alle ore 21.00 il pubblico è tutto per i Fleet Foxes. Nell’estate del 2008 il panorama musicale è stato sconvolto dal loro disco di esordio, “Fleet Foxes”, che ha saputo cogliere i frutti delle sonorità degli anni Sessanta (chitarre acustiche e armonie vocali) per creare un suono unico, fresco e innovativo. Tale risultato ha portato alla conquista del disco di platino (500.000 copie vendute) nel Regno Unito, oltre alla nomina come disco dell’anno per Times, Billboard, Mojo e altre riviste del settore. Sono passati quasi tre anni e la “flotta delle volpi” ha trascorso parecchio tempo a lavorare sul secondo disco. Le aspettative erano parecchie e il risultato è “Helplessness Blues”, un lavoro più intimista che supera l’impatto immediato e gioioso del primo album per piegare verso una maggiore complessità melodica.
I Fleet Foxes entrano sul palco alla spicciolata e vengono accolti da un boato. Ognuno diligentemente prende la propria posizione. Recentemente le volpi sono diventate sei: Robin Pecknold (chitarra acustica e voce), Skyler Skjelset (chitarra elettrica, mandolino e cori), Christian Wargo (basso e cori), Casey Wescott (tastiera, mandolino e cori), Joshua Tillman (batteria, percussioni e cori), Martin Henderson (polistrumentista).
Ognuno dei Fleet Foxes si vede assegnato due o tre compiti e talvolta cambiano strumento nel bel mezzo della canzone. Ad emergere è sempre la voce di Robin e le armonie vocali, studiate nei minimi particolari, degli altri membri della band. L’apertura è tutta riservata alle nuove composizioni che perfettamente si integrano con il repertorio della band di Seattle.
La prima è la strumentale The Cascades, un raffinato fingerpicking rinascimentale, che delicatamente confluisce in Grown Ocean, dove le armonie vocali di Robin trovano la massima espressione. Le nuove Battery Kinzie, Bedouin Dress, Sim Sala Bim si alternano a Drops in the River e Mykonos dell’EP “Sun Giant” del 2008.
La parte centrale dello show va in crescendo ed è riservata alle tracce del 2008 con la stupenda Your Protector, Tiger Mountain Peasant Song, Ragged Wood fino all’esplosione con White Winter Hymnal. L’inno al bianco inverno, primo singolo pubblicato dalla band, con la sua dolce semplicità, è caratterizzata da una struttura a cappella ed è allegria e maestria pura.
Di nuovo spazio alle nuove Lorelai, Montezuma, The Shrine/An Argument, Blue Spotted Tail e nuova esplosione con la coinvolgente ed emozionante ballata He doesn’t know why.
Il concerto si chiude con i bis. L’eleganza melodica di Oliver James e l’intensa title track “Helplessness Blues”: “Sono cresciuto credendo di essere unico in un modo o nell’altro, un fiocco di neve tra altri fiocchi di neve, unico sempre e comunque; e adesso, dopo averci pensato un po’, mi piacerebbe invece essere l’ingranaggio ben oliato di una grande macchina al servizio di qualcosa al di sopra di me”.
Au revoir Robin, à bientôt.
(Lorenzo Randazzo)