Con l’incontro di ieri, al quale oltre al ministro degli Esteri Frattini hanno partecipato diverse autorità istituzionali africane, il Meeting ha voluto come di consueto attirare l’attenzione su un territorio che da troppi anni è abbandonato a sé stesso e ai suoi problemi, sempre gli stessi e sempre più irreversibili, alla fame di un popolo che è data soprattutto dai suoi interminabili conflitti. Sono quasi 300 milioni gli africani che ogni giorno rischiano di morire di fame. L’ultimo rapporto della FAO ci dice che rispetto al 2008 c’è stato un aumento del 12%. Nessuno sembra accorgersi che in Africa si combattono oggi la maggior parte delle guerre del mondo. Tra ribellioni, guerre civili, colpi di Stato, terrorismo e guerre di religione l’Africa sta vorticosamente collezionando una serie impressionante e inquietante di primati. Congo, Ciad, Somalia, Darfur, Uganda e Ruanda sono le principali urgenze.
L’Africa è stata il tema principale del G8 che ha appena avuto luogo a L’Aquila. Tutti uniti nella soddisfazione per l’accordo sui 20 miliardi di dollari in aiuti alimentari. Ma i 300 miliardi di dollari di aiuti che sono stati erogati negli ultimi 40 anni non hanno avuto alcun effetto, infatti la crescita del Continente nello stesso lasso di tempo è stata meno dello 0,2 per cento all’anno. Uno scenario apocalittico di cui la comunità internazionale deve cominciare a rendersi conto, affrontando finalmente la questione africana come un problema realmente nostro, come un problema che riguarda noi e il vivere quotidiano delle nostre comunità, da affrontare giorno per giorno insieme alle istituzioni africane che sono alla ricerca perenne di uno spiraglio di legittimità.
Il Meeting ha dato la possibilità all’Europa intera di valutare un operato lungo più di 50 anni. 50 anni fa l’Africa ci interessava perché in Africa prendevano forma molti dei nostri progetti di potere. Adesso sembra non interessarci più. Il più grande errore degli europei in questi anni è stato il pensare di poter sostituire la politica coloniale con la politica degli aiuti. Ha ragione il premier keniano Odinga quando riconosce che il problema dell’Africa non è stato il colonialismo, ma il periodo successivo nel quale c’è stato un netto rifiuto di sistemi democratici multipartito a vantaggio di sistemi monopartito che favorivano la corruzione. Ha ragione anche quando dice che non è il caso di essere afro pessimisti, ma afro realisti e di cercare di comprendere come possiamo realmente dare una mano. Se la cultura dell’aiuto è quella che permea gli eventi rock, quella del solidarismo terzomondista dove le star delle tv e del cinema fanno propaganda per gli aiuti e i governi gli vanno dietro per la paura di perdere popolarità, l’Africa diventa un accessorio elegante per le serate di gala, ma nella sostanza questo non ha la capacita di incidere e di essere realmente alternativa alla vecchia logica coloniale.
Perché ci possa essere una nuova logica dobbiamo capire dove sbagliamo nel meccanismo degli aiuti. Capire che se gli aiuti sono per governi corrotti e se questi governi ostacolano lo sviluppo della società civile e scoraggiano istituzioni trasparenti, questo scoraggia oltre alle istituzioni internazionali ogni singola persona in Africa dal diventare protagonista del proprio destino. Quando scegliamo di dare una mano all’Africa dobbiamo avere lo stesso desiderio di compimento che c’è nella vita personale di ognuno di noi, il desiderio che la propria vita sia migliore, che si avveri un destino buono per me e i miei cari. Quando accade quel cambiamento, allora avviene il miracolo della realizzazione del bene comune.
Passione per l’Africa significa passione per ognuna di quelle persone che vivono lì. Investire in capitale umano vuol dire mirare a comprendere che la fonte di ripresa più grande sono proprio le persone che vivono in una situazione di disagio. A loro spetta la responsabilità di portare il continente fuori dal guado, e a noi l’attenzione ai problemi di quel continente avendo uno scopo chiaro: quel bene comune, che è interesse non solo dell’Africa, ma anche di tutti noi.