C’è un protagonista della musica novecentesca trascurato dalle programmazioni concertistiche, ignorato dalle integrali discografiche, accantonato dagli studiosi come caso di cui occuparsi in un futuro non ben definito. Un artista molto attivo in Italia, innamorato dei suoi monumenti, attratto dalla sua natura, ispirato dalla sua cultura. Si tratta del tedesco Paul Hindemith, che un volume fresco di stampa di Marco Moiraghi (L’Epos edizioni, pp. 509, € 48,30), prima monografia in lingua italiana, colmante una vistosa lacuna, racconta con dovizia di particolari.
Violinista e violista perfetto, lettura musicale sbalorditiva, infallibile scrittura, fluviale produzione, miracoloso didatta, eccellente direttore d’orchestra, Hindemith attraversa il secolo scorso con spirito inquieto e ribelle, musicista inclassificabile, sempre attuale e fuori moda a un tempo.
Le sue prime esperienze utilizzano un tagliente linguaggio espressionista. Si prende gioco del Tristano e di vari mostri sacri (Richard Strauss in testa). Sparge ironia a piene mani. Antiromantico, dissacratorio, spiazzante. «Non stare a pensare se tu debba suonare il re diesis col quarto o col sesto dito. Esegui questo pezzo molto selvaggiamente», raccomanda.
Nel 1938 abbandona la Germania perché i nazisti al potere hanno condannato la sua musica come “degenerata”. Due anni dopo è negli Usa, insegnante all’Università di Yale. I suoi studi di pedagogia e i suoi trattati di composizione fanno scuola nel mondo. Inventa una “Musica comunitaria”: musica per tutti, nessuno escluso, capillarmente progettata, che parli direttamente all’uomo. Teorizza e realizza una “Musica d’uso”: un’arte sonora comprensibile e profonda allo stesso tempo, immediata, di facile accesso ma non banale, destinata particolarmente alle giovani generazioni, che educhi alla grande musica un pubblico sempre più ampio. Musica come inseguimento di passioni e desideri, racconto, compagnia alla vita.
Nella fase finale della sua esistenza riscopre una mai abbandonata dimensione religiosa: si vedano il misticismo di “Mathis il pittore”, la purezza francescana di “Nobilissima visione”, la dantesca “Armonia del mondo”, il dissonante gregoriano della cattolicissima “Messa per coro a cappella”.
Gli esperti lo hanno spesso bollato con parole di fuoco: pedante, accademico, freddo, conservatore, le più tenere. Massimo Mila lo definiva «tetragono, che accetta grigiore e tristezza del collettivismo senza romantiche recriminazioni». I più creativi lo apostrofano «gran piantagrane davanti all’Eterno». I più onesti ammettono i loro dubbi: «Reazionario, retrogrado? Forse. Uscirà finalmente dal suo purgatorio? Non lo sappiamo», confessa lo specialista von der Weid. «Ha sempre cercato la concretezza, la fisicità della musica», ricorda lo storico Gianfranco Zaccaro.
Un suo famoso allievo, Luciano Chailly, scomparso pochi anni fa, mi confidò in un’intervista: «Hindemith non è mai stato compreso fino in fondo. A suo modo è stato un rivoluzionario, preoccupato non tanto di “come” fare ma di “cosa” dire. Insofferente a ogni formula o ricetta. Limpido , ingenuo, casto, eppure traboccante di fantasia».
Il volume di Moiraghi condensa la vicenda biografica e artistica di Hindemith in una sintesi esauriente, aggiornata, organicamente intrecciata, inesauribile miniera d’informazioni.
I capitoli del libro seguono una scansione cronologica che unisce abilmente vita e opere. Penetranti le analisi, inedite le pagine dedicate ai Lieder, ai mottetti, alla musica per film, fino a oggi settori trascurati.
Preziose, molto rare, bellissime le fotografie riportate nel volume. Deliziosa quella scattata insieme a Stravinskij, sorridenti, sornioni, diversissimi, entrambi rocciosi come montagne. Sprizza gioia aurorale l’orchestra di ragazzi che lui dirige a Plön nel 1932. Impressionante la foto che lo ritrae durante l’ultima apparizione pubblica: immerso in un silenzio teso e vibrante, un istante prima degli applausi, grato e stremato, svuotato d’ogni energia, rassegnato.
Dove sta andando la musica? Pare riflettere. Anacronistico, incompreso, sognatore? «Troppo tardi», sembra dire il suo sguardo rivolto in basso.
(Enrico Raggi)