Che bel disco ha inciso Richard Ashcroft. Diventato famosissimo insieme ai Verve soprattutto per una canzone, Bitter sweet simphony, il musicista britannico ha continuato a vivere i suoi alti e bassi psicodrammatici. Quattro anni dopo l’ultimo (e interessante) “Keys to the world” spiazza tutti con un disco potentissimo.
Il suo nuovo prodotto si intitola “Born Again” ed è accreditato a “RPA & The United nations of sound” (la sigla sta per il suo nome completo, Richard Paul Ashcroft). L’album si apre con due bordate potenti che chiariscono subito la portata del nuovo lavoro, Are you ready? e Born again. Chitarre e orchestra, affrontati con sfrontatezza e pienezza vocale. Tostissimo il suono e l’atteggiamento rock del musicista di Wigan in Are you ready?, decisamente sfidante anche il testo, un dialogo tra il metropolitano Richard e il figlio di Dio:
Gesù, dolce Gesù
Non lasciarci qui tutti soli
Non lasciarci vivere nella paura
Sono pronto per te
Non molto diverso nei suoi temi è Born again, altro assalto rockettaro che ruota attorno al tema del rinascere, delle catene del passato e del proprio temperamento che non ti sottomettono.
Due pezzi di enorme potenza per un disco che parte con un groove difficile da ritrovare in prodotti similari.
Si dirà: e questi testi da dove vengono? Entro certi limiti non c’è da sorprendersi per testi del genere, se è vero che già il suo più famoso brano con i Verve era intriso di questa ansia di liberazione, di questa preghiera urbana da parte di un quasi quarantenne che ne ha passate mille e ancor mille tra psicofarmaci e guai per un carattere sufficientemente incontrollabile.
Vero è comunque che se era “infatuazione profetica” – come scritto nel Regno Unito – negli anni avrebbe dovuto tramontare, invece Richard è ancora qui a scrivere canzoni che si rivolgono al buon Gesù.
Musicalmente è interessante notare, come spesso accade nella visione musicale di questo musicista, che chitarre distorte e violini vanno a braccetto (e non è strano visto che già nei Verve di Urban hymns i violini erano parte fondamentale del suono) in un composto kitch decisamente divertente, per nulla progressive e insolitamente elettrizzante.
Ovviamente non tutti i brani del disco suonano come i primi due, anche se rimangono oltremodo convincenti: Glory ways è un gospelrock intenso e furbissimo, Good loving è un piacevole pezzo soul-pop che pare giunto dal catalogo di Prince, mentre This thing called life è un pezzo capolavoro, che avrebbe interpretato con piacere anche Marvin Gaye.
Ashcroft gira a mille, con una voce convinta e convincente, una buona band e un produttore dance-oriented, non importa (forse) che poi un pezzo come Royal Highness sia sfacciatamente identico a Sweet Jane, brano di un certo Lou Reed e How deep is your man riprenda l’attacco di Boom boom di John Lee Hooker.
Certo, ci sono anche dei pezzi da riempimento (non mi dicono molto America o Beatitude, anche se Ashcroft è andato a New York a registrarli perché affascinato dal suono e dalle metriche rap), ma lo standard è altissimo e si capisce che ci si trova di fronte a un prodotto realizzato non per doveri discografici o di conto in banca, bensì per l’urgenza di far della musica, di aver delle cose da dire, di aver canzoni da cantare.
Curioso, fastidioso, divertente, energico. Per dirla in breve: disco da non perdere.