Lucio Battisti e Francesco De Gregori: banalmente quando si parla di Dente (il vero nome è Giuseppe Peveri) spuntano più o meno sempre i nomi dei due giganti della canzone italiana degli anni Settanta. Sì, i rimandi ci sono, è evidente soprattutto in certi brani del nuovo “Io tra di noi”. E allora? Sono rimandi che fanno solo onore al giovane cantautore originario di Fidenza, da tempo trapiantato in Lombardia, certe citazioni, perché dimostrazione di uno spessore musicale che manca alla gran parte dei suoi coetanei. Citazioni musicali si badi bene perché la forza di Dente, oltre alle belle canzoni, è quella di un linguaggio lirico originale e vincente, brillante a modo suo e che nulla ha che vedere con quello dei musicisti prima citati.
E non potrebbe essere altrimenti, visto che Dente è figlio di questi tempi moderni, che nulla hanno a che spartire – nel bene ma soprattutto nel male (quest’ultimo è ciò che caratterizza i giorni nostri, male inteso come smarrimento, vuoto, mancanza di un punto di riferimento, fosse solo l’amore e non certo la politica) – con i tempi dei Battisti e dei De Gregori.
Confuso, fortemente ironico, anche cinico, ma estremamente realista. Dente è la voce del Terzo Millennio, dei figli dell’iPod e di Facebook: “Più che il destino è stata l’adsl che vi ha unito” canta. Geniale. E dannatamente vero. Nelle canzoni di Dente, soprattutto, c’è un senso dell’assenza che spiazza e che pone domande, anche inquietanti, all’ascoltatore: “Mi mancano le cose che non ho mai avuto”, un altro dei suoi colpi di genio lirici. Come geniale è già il titolo del disco, “Io tra di noi”: io sono un altro, un altro che si mette in mezzo a me e a te.
I debiti con il Lucio Battisti, quello meno melodico e più ritmico, il minimalismo sonico che ha caratterizzato certe pagine dello scomparso musicista, li paga con un brano come Saldati, mentre Due volte niente esprime invece la grande forza musicale di un piccolo uomo che non ha niente da dimostrare, perché in possesso di una sua forza.
Se un riferimento allora si può fare, Dente potrebbe essere il controcanto maschile di Cristina Donà, l’altra voce brillante declinata al femminile della migliore canzone d’autore degli anni più recenti: entrambi ugualmente disincantati, capaci di raccogliere le briciole di una storia musicale lunga quarant’anni e di raccontare la quotidianeità anche quella banale, che è impossibile celare per quanto ci si sforzi, annebbiati e annichiliti da quanto ci piove addosso ogni giorno.
Fedele alla struttura dei suoi lavori precedenti (in sintesi, chitarre acustiche, batteria, basso e tastiere Fender Rhodes che danno il giusto sapore anni 60) l’ottima produzione di Tommaso Colliva dà al nuovo disco quel giusto ed elegante spessore che si trova, guarda caso, anche nell’ultimo disco della Donà: fiati (Pensiero associativo), orchestrazione soffusa quando c’è bisogno, cambiamenti di tempo imponenti (Casa tua) che aprono gli orizzonti.
E’ nei momenti più intimi, in cui sembra di varcare la soglia della cameretta dove Dente pensa le sue canzoni, però è dove per chi scrive che il cantautore dà il meglio: oltre alla già citata Due volte niente, anche Giudizio universatile e la splendida Cuore di pietra (che qualche debito a De Gregori lo paga).
Pur cambiando qua e là apparentemente registro sonoro, quanto offre Dente rimane una costante di immediatezza: Puntino sulla i si apre a squarci quasi psichedelici. Attenzione, nessun trucco sonico, solo la grande forza evocatrice che Dente sa imporre al suo canto. Finendo con la straordinaria e lunga (oltre sette minuti) Rette parallele, che comincia con l’aria distaccata di un jazz dai sapori lounge e si distende, questa volta davvero in modo battistiano, in una ritmica soffice e sudamericana con un coro insistente che non vorrebbe finire mai.
Disincanto e realismo, la forza di Dente, quanto di meglio il cosiddetto cantautorato indie possa oggi offrire. Se poi la parola cantautore indie significa davvero qualcosa.