Grande manifestazione della Cgil che ha portato a Roma diverse migliaia di persone a dimostrare che molto popolo di sinistra è contrario alla politica sul lavoro e alle riforme proposte dal Governo Renzi. Se ci vogliamo fermare ai commenti politici va rilevato che il sindacato di sinistra ha fatto da contenitore per tutte quelle posizioni che vanno dalla sinistra interna al Pd a tutte le sigle che sopravvivono alla sua sinistra. La Cgil non è stata capace di fare scendere in piazza gli altri sindacati su una proposta unitaria e ha coagulato, diciamo così per semplificazione, le sole posizioni di estrema sinistra.
Per essere il principale sindacato italiano che ha nel suo Dna la vocazione di essere capace di fare unità e maggioranza fra i lavoratori, è stata una prova di incapacità a creare alleanze, di fatto uno splendido e partecipato atto di isolamento. Che ciò avvenga con il secondo segretario generale proveniente dalla componente socialista sottolinea ancora di più una deriva incapace di reagire con piattaforme di proposte aperte al confronto e fa apparire il sindacato di sinistra come il puro schieramento di chi si oppone a qualsiasi cambiamento. Alla lunga diventa un pezzo della rottamazione, per consunzione se non per scelta politica.
Dal punto di vista del merito, la questione di essere una piazza di conservazione è ancora più evidente. Due sono apparsi i temi che la cronaca dal palco e le interviste ai partecipanti hanno reso evidente. Il palinsesto della manifestazione è stato scandito da interventi di rappresentanti sindacali di fabbriche in crisi. La piazza era chiamata a dare a tutti la solidarietà per le iniziative di lotta in atto in molti settori: dalla siderurgia all’orchestra dell’Opera di Roma, in base al principio che il “posto di lavoro non si tocca”. Un lungo elenco di casi di crisi aziendali, frutto di situazioni anche molto diverse, usate per richiedere interventi della politica dove l’economia sta boccheggiando. Come si potesse impostare oggi una politica economica tesa a realizzare con soldi pubblici piani di interventi industriali per mantenere posti di lavoro.
Mentre il palco forniva questi esempi, le interviste ai partecipanti al corteo raccoglievano le ragioni che avevano spinto le persone a esserci. Lasciando perdere le giustificazioni autogratificanti di chi non ha mai perso una manifestazione e di chi era lì per ragioni prettamente politiche, una posizione è emersa come la più riproposta nelle risposte, quasi fosse il motivo lanciato nelle riunioni preparatorie: con l’ulteriore colpo all’articolo 18, questo Governo vuole togliere diritti ai lavoratori, noi invece siamo per estendere a tutti i diritti esistenti, allargando quindi l’applicazione di quanto previsto per le grandi aziende a tutte le imprese e a tutte le tipologie di contratti applicati; così difendiamo anche i precari, i lavoratori delle piccole imprese e per qualcuno anche le partite Iva. Il discorso finale di Susanna Camusso ha tenuto assieme queste due posizioni scagliandole contro il Governo, colpevole di attaccare i diritti dei lavoratori.
Che idea del lavoro esce da tutto ciò? Dire che è il concetto di lavoro caratteristico del XX secolo e non di quello attuale è un modo gentile per indicare che si sta cercando di riesumare un mondo che non c’è più. Inoltre, difendere le regole che erano alla base di rapporti di lavoro ormai minoritari nella realtà porta a essere difensori delle proprie catene e non propone regole che possano affermare la libertà del lavoro così come si presenta oggi.
L’affermazione della forza ideale del movimento sindacale europeo nel corso della sua storia è dovuta alla capacità, superata la fase di affermazione dei diritti umani di base (orari minimi, età lavorativa, diritti sindacali, ecc.), di proporre un sistema di tutele economiche e di servizi al lavoro che servissero a tutelare i lavoratori in periodi di difficoltà. Il sistema di welfare europeo deve molto a questa capacità delle organizzazioni sindacali di saper coniugare tutele e diritti sul lavoro con tutele e diritti per i periodi di non lavoro (salute, anzianità, disoccupazione).
La crisi di questo modello oggi è nella realtà. Da un lato, le risorse pubbliche vanno ottimizzate, spostate cioè da servizi ormai superati a nuovi servizi utili per rispondere a nuovi bisogni. La crisi fiscale degli stati sta a indicare che si è raggiunto il limite di quanto è pagabile con le risorse raccolte della tassazione e che bisogna scegliere dove e come intervenire. Il secondo cambiamento è dovuto a una flessibilità dei sistemi produttivi che ha reso superato il modello del posto di lavoro fisso. La durata media delle imprese iscritte alla Camera di Commercio di Milano è di poco più di 10 anni. Ciò significa che non vi è più un lavoro a vita, ma una vita di lavori. Pensare ancora al sistema di tutele di chi rimaneva legato a un luogo di lavoro e a una professione per tutta la vita è sostituire l’ideologia del posto di lavoro alla realtà del lavoro di oggi.
È per affrontare questi cambiamenti strutturali che servono riforme. Riforme nelle tutele sul lavoro e delle tutele per chi ha difficoltà nel lavoro. Tutele economiche e servizi al lavoro che sostengono una flessibilità che altrimenti diventa una nuova forma di ingiustizia. Ma che non si sconfigge negandola o immaginando un ritorno al passato. Lo splendido isolamento della moltitudine di Roma viene dall’incapacità di proporre iniziative capaci di misurarsi con le nuove realtà. In questo la Cgil è in buona compagnia. Quasi tutte le rappresentanze sociali soffrono di questa difficoltà e appaiono obsolete, piegate più alla difesa di propri interessi corporativi che attive nel partecipare responsabilmente a un nuovo progetto di sviluppo del Paese.
Ma un’associazione che rinuncia ad avere una proposta valida per tutti, una proposta in grado di rispondere agli interessi del Paese, oltre a quello dei propri associati, sta di fatto mettendosi su un binario morto. C’è bisogno invece dello sforzo e del contributo di tutti se vogliamo superare questa fase di crisi con una nuova stagione di riforme e innovazione sociale.