Credo che sia una misura importante soprattutto per dare maggiore flessibilità alle imprese prima ancora che per aumentare le retribuzioni, dal momento che il monte delle ore straordinarie sul monte delle ore lavorate è pari a poco più del 5%.
Come ho già avuto modo di dichiarare non sono d’accordo. La grande stima per il prof. Pietro Ichino mi consente di dissentire dal sen. Pietro Ichino, che sembra essersi iscritto al partito dei no. Dopo aver criticato la proposta dell’introduzione graduale e progressiva del quoziente familiare (nella trascorsa legislatura era stato persino presentato un progetto di legge a firma di molti parlamentari dell’Unione) si è rivolto, in un’intervista al Sole 24 Ore, contro l’idea di detassare il lavoro straordinario. Il motivo di tali critiche del sen. Ichino stanno nella convinzione che tanto il quoziente familiare quanto la minore fiscalità sullo straordinario danneggerebbero l’occupazione femminile e favorirebbero invece quella maschile, prevalente nell’attuale mercato del lavoro. Solo che con queste argomentazioni non si arriva da nessuna parte. Qualunque provvedimento rivolto ad aumentare le retribuzioni dei lavoratori (anche quelli riguardanti i minimi tabellari e le voci legate alla produttività) finisce per favorire i lavoratori maschi che sono assolutamente prevalenti tra gli occupati. Ma quando si vogliono dare delle risposte immediate per migliorare il reddito di chi lavora (o riconoscere un trattamento fiscale più equo ed adeguato alle famiglie monoreddito o con un numero maggiore di componenti a carico) diventa inevitabile muoversi nella realtà concreta del mercato del lavoro.
I sindacati sbagliano. Sono talmente legati ai loro tabù da non preoccuparsi neppure di quello che pensano i lavoratori. La detassazione del lavoro straordinario non comporterebbe il venir meno dei limiti giornalieri, mensili e annuali posti dalla legge e dai contratti a tutela della integrità fisica dei lavoratori. Sarei poi contrario a riconoscere un’ulteriore rendita di posizione ai sindacati, condizionando al solo salario contrattato i benefici fiscali e costringendo così i datori di lavoro a farsi “apporre il bollo” sui miglioramenti concessi da Cgil, Cisl e Uil. Il diritto di contrattare il sindacato se lo deve guadagnare.
A mio parere andrebbe seguita un’altra strada. Il governo dovrebbe provare a sciogliere subito il nodo del rapporto col sindacato: capire cioè se sarà guerra o pace. Per scoprire il gioco delle confederazioni basterebbe andare direttamente al confronto con le parti sociali, mettendo a disposizione delle loro richieste (sgravi fiscali sulle retribuzioni e lo straordinario, riduzione della tassazione sulle imprese) l’ammontare del “tesoretto” (una volta verificatene l’esistenza e la consistenza senza creare problemi ai conti pubblici) ad una precisa condizione: che entro 40 giorni le parti siano capaci di avviare e concludere un negoziato sulla riforma degli assetti contrattuali, orientato a valorizzare il più possibile gli elementi della retribuzione collegati alla produttività e la contrattazione decentrata.
Sarebbe un modo per giocare di anticipo, dando forza e ruolo alle componenti più ragionevoli e meno strumentalizzabili tra le organizzazioni sindacali e per mettere alla prova la nuova presidenza di viale dell’Astronomia, dopo la disastrosa gestione pro Cgil di Luca di Montezemolo. In fondo, il punto più alto dell’iniziativa politica dell’ultimo governo Berlusconi fu la stipula del Patto per l’Italia del luglio del 2002. Tutto ciò premesso, si spiega anche perché sarebbe importante che al Dicastero del Welfare andasse una personalità competente come Roberto Maroni o magari individuata tra quelle che gli furono a fianco nella trascorsa legislatura, portando a compimento, in quel ministero, talune delle riforme grazie alle quali quell’esperienza governativa merita di essere ricordata.