«Tentare di rilanciare l’occupazione puntando sul Jobs Act è stato un errore. Per creare posti di lavoro occorre scommettere sulla crescita». Ad affermarlo è il professor Francesco Forte, ex ministro delle Finanze e per il Coordinamento delle politiche comunitarie. Dai dati Istat risulta che nel mese di ottobre il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 13,2%, con un incremento dell’1% in un anno e dello 0,3% rispetto al mese precedente. Il tasso di inattività, cioè quanti non hanno un lavoro e rinunciano a cercarlo, è pari invece al 35,7%, lo 0,8% in meno in 12 mesi e lo 0,1% in meno rispetto a settembre.
Perché la disoccupazione in Italia continua a peggiorare?
Perché il governo ha puntato tutto sull’occupazione e non sulla crescita. Ha stanziato gli 80 euro in busta paga e ha introdotto il Jobs Act che dovrebbe servire a creare più lavoro. Ha invece tassato i capitali e le rendite finanziarie, che sono però indispensabili per rafforzare le banche e la crescita.
Quali sono state le conseguenze?
Di fatto le misure del governo non hanno prodotto né occupazione, né crescita, anzi ci sono una maggiore disoccupazione e una minore crescita. La ragione è che compiendo operazioni che danneggiano la crescita e tentando nello stesso tempo di favorire l’occupazione, si finisce per danneggiare anche la seconda. La politica economica che questo governo ha propagandato, mettendosi nelle condizioni di essere penalizzato in futuro per avere sforato i parametri europei, evidentemente non funziona dal punto di vista della stessa teoria con cui vorrebbe essere sostenuta, e cioè che un maggior deficit ci darebbe una maggiore crescita.
Perché ritiene che questa teoria sia sbagliata?
Questa teoria potrebbe essere vera se il deficit fosse impiegato per rafforzare la crescita, mentre nella realtà non è così. Tra l’altro questo sistema è anche contraddittorio dal punto di vista dell’occupazione. La scelta di favorire determinati contratti rispetto a certi altri rende più difficile il fatto di creare occupazione. Con una molteplicità di tipologie di contratti di lavoro c’è più possibilità di generare occupazione che con il contratto unico nazionale, che è adeguato per alcune situazioni ma non per altre, soprattutto nei servizi e in un’economia fluttuante.
Lei che cosa farebbe per rilanciare l’occupazione?
Ciò di cui ha bisogno il mondo del lavoro è una politica meno tesa con le organizzazioni sindacali. Ci sono sindacati riformisti con cui si potrebbe intessere un dialogo, fermo restando che le decisioni finali spettano poi al governo e al parlamento. Occorre riuscire a capire meglio le varie necessità e situazioni delle imprese e dei sindacati, nella disponibilità a trovare soluzioni eque ma nello stesso tempo efficienti, cioè non assistenzialiste e che siano garantiste solo nei limiti del possibile. Il metodo si basa cioè su un maggiore dialogo e un maggiore consenso nella discussione sia al vertice sia alla base. Tutto il contrario di quello che ha fatto Renzi. Si doveva incominciare da una dimensione aziendale, cioè dalle piccole e medie imprese, senza nello stesso tempo tagliare fuori i sindacati.
Perché Renzi ha scelto di rinunciare a dialogare con i sindacati?
Perché il Pd è collegato da un lato a un’ala sindacale riformista, dall’altra a un’ala sindacale oltranzista. Il premier non si può confrontare con i sindacati perché questo frantumerebbe la sua linea. Non può dialogare con Cisl e Uil, che pure nell’area Pd riscuotono discreti consensi, perché ciò darebbe fastidio alla Cgil. Renzi non si consulta con nessuno, e così non crea quella situazione tale per cui si dialoga con chi ci sta, e non con chi a priori lo rifiuta. Il governo soprattutto rinuncia alla flessibilità del lavoro e dei contratti, puntando su uno schema che non ha enormi possibilità di successo.
(Pietro Vernizzi)