«Sarà una Festa del lavoro, un primo Primo Maggio senza una sinistra politica. Per più di un secolo il mondo del lavoro ha avuto un suo partito, un riferimento parlamentare, ma dopo il 4 marzo non ce l’ha». È questo l’incipit di un editoriale di Antonio Polito sul Corriere della Sera. Mi permetto di contraddire, almeno in parte, la sua opinione. Un’area importante del movimento sindacale (la Cisl e la stessa Uil) non ha” divorziato” dal Pd (sia pure senza rinunciare alla propria autonomia), come ha fatto la Cgil, finendo per trovarsi davanti a interlocutori (i partiti alla sinistra dei dem) sostenuti da un consenso elettorale tanto modesto da farli somigliare a un’ennesima categoria di “esodati” piuttosto che a una forza politica capace di “rappresentare” in Parlamento la più importante e gloriosa confederazione sindacale. Al vice direttore del Corriere – che evidentemente si riferiva proprio alla Cgil e ai suoi tradizionali e genetici rapporti con i partiti di sinistra – sarebbe bastato finire la frase aggiungendo la parola “ancora” (ovvero: “ma dopo il 4 marzo non ce l’ha ancora“).
È la stessa Confederazione di corso d’Italia che, in omaggio al principio della glasnost, ha commissionato una ricerca a Tecnè sul voto degli iscritti e reso noti gli esiti, dai quali risulta che ben il 33% ha votato per i pentastellati e il 10% per la Lega (un consenso tanto modesto per il partito di Matteo Salvini sta a dimostrare che molti voti di sinistra già emigrati verso la Lega sono stati intercettati, il 4 marzo, dal M5S). Non sappiamo – ma tutto lascia intendere che sia così – se considerando soltanto la platea dei lavoratori attivi iscritti queste percentuali sarebbero più elevate, in considerazione del fatto che tra i pensionati è rimasta la parte di elettorato più fedele al Pd. Tutto lascia credere poi che il M5S non sia un fenomeno passeggero (il grande errore di Matteo Renzi è stato quello di flirtare con il populismo nella speranza di sgonfiarlo, mentre è riuscito solo a implementarlo). Potrebbe essere, allora, che il rapporto tra la Cgil e i grillini, formatosi spontaneamente alla base, salga ben presto al piano nobile dei gruppi dirigenti, consegnando così al Movimento un interlocutore saldo come una roccia e al sindacato quel riferimento parlamentare di cui, secondo Polito, ora sarebbe privo.
Una traccia di un possibile scambio in tal senso la si trova leggendo i commenti (raccolti da Il Diario del Lavoro) di leader sindacali delle tre confederazioni sullo tsumani elettorale. “I temi che hanno permesso ai due partiti più votati – ha affermato Maurizio Landini – di conquistare grandi consensi, dall’abolizione della legge Fornero al superamento del Jobs Act, sono gli stessi sui cui la Cgil si batte da anni”. “Non è un mistero – ha proseguito il sindacalista – che non abbiamo condiviso la Buona scuola, non abbiamo condiviso il Jobs Act, così come una serie di riforme sul piano istituzionale. È da tempo che diciamo che sia nei governi di destra, sia di sinistra non c’è una politica industriale degna di questo nome”.
Uno dei più brillanti sindacalisti della nuova generazione, Alessandro Genovesi, Segretario della Fillea, ha sostenuto che il voto del 4 marzo pone alla Cgil “un problema nuovo: come riportiamo i nostri, spaventati, arrabbiati, delusi, consegnati a una visione individualista o populista, come li riportiamo a una dimensione di impegno collettivo democratico e progressista. E questo ci spinge a capire come dobbiamo posizionarci davanti alla politica”. “Dire che andiamo d’accordo è un parolone”, ha aggiunto Michele Azzola segretario della Cgil romana. “Ma un italiano su tre li ha votati, percentuale che tra i nostri iscritti è anche più alta. E dunque non possiamo prescindere dal fatto che con loro si deve avere un rapporto. Inoltre, tra noi e i Cinque stelle ci sono punti di condivisione, come sulle pensioni e sul lavoro. Punti che, per assurdo, coincidono anche con alcune parti del programma della Lega”.
Diversa è l’analisi di Marco Bentivogli, un sindacalista emergente ora alla guida della Fim-Cisl. “Negli ultimi anni siamo stati un po’ troppo neutrali sulla partita valoriale. Noi siamo organizzazioni autonome, non indifferenti. Abbiamo considerato compatibile con l’appartenenza sindacale, con la militanza sindacale accostamenti al razzismo e culture populiste che sono quanto di più lontane dalla cultura sindacale e dalla ricerca di giustizia sociale che esprime il sindacato”. È il medesimo filone di pensiero che il sindacalista aveva espresso nella relazione al Congresso nazionale della Fim: “Democrazia diretta e reddito di cittadinanza sono due pilastri dell’illusione populista. Entrambi sono uniti dalla retorica declinista della fine del lavoro”. E mentre i dirigenti della Cgil continuano a compiacersi delle convergenze con il M5S, sul Messaggero di ieri, Marco Bentivogli non ha esitato a ribadire che il sindacato non conquisterà mai un ventenne parlandogli dell’art. 18 e della legge Fornero.
Viene da domandarsi, allora, in questo 1° maggio, come sia possibile un atteggiamento (anche culturale) tanto diverso tra dirigenti sindacali che, in fondo, si confrontano con gli stessi lavoratori, portatori dei medesimi problemi e operanti all’interno delle stesse aziende. Non risulta che gli iscritti alla Cisl (e alla Fim) siano passati, nella cabina elettorale, al M5S e alla Lega in egual misura di quelli della Cgil. Non sarà allora che per orientare i lavoratori – anche in sede politica – è molto influente quello che racconta loro il sindacato? La Cgil raccoglie quello che ha seminato per anni. Rosario Rappa ha votato in modo coerente con quanto da sindacalista era solito dire ai lavoratori.