L’85% dei giovani ritiene che non troverà in Italia un lavoro che corrisponda alle proprie competenze professionali e il 70% è convinto che nei prossimi tre anni non avremo una ripresa economica tale da cambiare questo quadro. Sono alcuni dei risultati de “La condizione giovanile in Italia – Rapporto Giovani 2014”, un’indagine svolta dall’Istituto Toniolo in collaborazione con l’Università Cattolica e appena pubblicata.
La ricerca ha coinvolto giovani fra i 19 e i 32 anni e l’impressione complessiva è che il passaggio scuola-lavoro e poi la stabilizzazione nel mondo del lavoro assomigli più a un labirinto che non un percorso, per quanto accidentato, ma individuabile e perseguibile. Il risultato è un atteggiamento molto schiacciato sulle criticità del presente e una difficoltà a programmare il domani. La soddisfazione viene solo da amicizie e ambiti familiari, mentre il mondo del lavoro offre pochi posti e di qualità scarsa. Colpisce che la valutazione è molto realistica e pochi attribuiscono tutte le colpe alla crisi. Addirittura una percentuale analoga (circa il 18%) attribuisce in modo autocritico all’indisponibilità a svolgere alcune professioni uno dei problemi presenti. Ma ciò che appare determinante alla maggioranza è che non vi è rapporto fra la preparazione professionale acquisita e ciò che è richiesto dalle imprese.
Non vi è nemmeno una speranza di ottenere alti redditi. Ben il 70% ritiene che sarebbe giusto arrivare a percepire dai 35 anni almeno uno stipendio compreso fra i 1.500 e i 2.000 euro mensili. Ma oltre il 50% si aspetta di rimanere al di sotto dei 1.500. Possiamo dire che il realismo con cui i giovani definiscono i problemi presenti suonano come un ennesimo richiamo al sistema politico perché ponga il tema della questione giovani/lavoro al centro dell’iniziativa politica e delle riforme che si devono avviare in tempi rapidi.
La realtà registrata di una scuola che forma ma non corrisponde a quanto serve al sistema economico, percorsi di inserimento che non danno tutele e addirittura portano a precarietà se sono legati al sistema della Pubblica amministrazione, assenza quasi completa di servizi al lavoro che facilitino l’incontro fra domanda e offerta, non possono che portare a un senso generale di frustrazione rispetto alla distanza fra aspettative maturate nel percorso formativo e realtà lavorativa con cui si entra in contatto.
Anche la disponibilità alla mobilità pur di trovare un lavoro corrispondente alla propria formazione non incontra canali facilmente percorribili per valutare offerte possibili. Solamente una minoranza ha nel corso della propria formazione occasioni internazionali e chi si occupa di ricerca può solo con l’emigrazione seguire i propri desideri.
La Garanzia Giovani non è ovviamente oggetto della ricerca. Certo, se voleva essere una grande opportunità offerta ai giovani in transizione fra scuola e lavoro sappiamo già, dai dati disponibili, che così non è stato. Magari il fallimento di questo programma porterà ad accelerare la predisposizione dei provvedimenti attuativi del Jobs Act e a dare finalmente vita a un sistema di servizi al lavoro in grado di attuare la promessa del presidente del consiglio su servizi che si prendono in carico il bisogno di lavoro da chi lo sta cercando.
Certo, gli ultimi risultati della Garanzia Giovani confermano quanto emerge dall’indagine: la questione del lavoro dei giovani non è centrale nelle iniziative avviate. Lo sarà di più con la generalizzazione del contratto di apprendistato come strumento di inserimento decisa dal ministro del Lavoro già con i primi provvedimenti e rafforzata dallo schema del Jobs Act. Anche il contratto a tutele crescenti potrà riavviare inserimenti lavorativi per giovani oggi impiegati con contratti a progetto o di breve durata.
Per rimettere realmente in funzione il mercato del lavoro giovanile prosciugando la precarietà di contratti brevi e di incertezza continua servono provvedimenti più generali su due fronti. In primo luogo, vanno chiusi tutti quegli ambiti della Pubblica amministrazione che hanno accumulato migliaia di collaborazioni in varia forma e che restano la principale fonte di precarietà: a partire dalle assunzioni da fare nella scuola fino ai collaboratori che supportano con contratti a progetto le stesse agenzie nazionali che si occupano di mercato del lavoro. La fase di riorganizzazione degli Enti locali può essere l’occasione per affrontare complessivamente una ristrutturazione delle piante organiche nel settore pubblico con processi di mobilità e valorizzazione delle competenze oggi non presenti in molti servizi territoriali.
A ciò va però aggiunto un deciso intervento per quanto riguarda la scuola. Si ripropone il tema di rivedere complessivamente il percorso di studio anticipando almeno di un anno l’accesso agli studi universitari. Ciò è possibile rivedendo il percorso ormai superato delle medie inferiori e superiori adeguando corsi di studi con l’età dell’obbligo scolastico. Ancor più importante è però il rilancio dei percorsi di formazione professionale per restituire sedi formative a chi invece abbandona gli studi e per formare a professioni che oggi lamentano una scarsità di possibili candidati per percorsi che offrono già ora occasioni di lavoro che restano senza copertura.
L’esperienza in atto in molte regioni – con un pieno coinvolgimento dell’offerta privata di formazione professionale anche con il sostegno di voucher per favorire la scelta operata dalle famiglie – indica una strada che ha dato risultati molto positivi. Deve però esserci un impegno nazionale perché questo diventi a tutti gli effetti un percorso formativo offerto su tutto il territorio e si saldi con nuove possibilità di sperimentazione fra scuola e lavoro.
Se si importano proposte di riforma partendo dalla volontà di rispondere alle sollecitazioni che vengono dalle risposte dei giovani si può velocemente dare risposta a problemi che per troppo tempo sono rimasti oggetto per convegni, ma che chiedono invece volontà politica in azione per recuperare gli anni persi senza decisioni.