“I giovani non siano troppo esigenti per il primo impiego”. Il monito è arrivato ieri, durante un convegno a Milano, dal ministro del lavoro Elsa Fornero, che ha aggiunto: “I giovani escono dalla scuola e devono trovare un’occupazione. Devono anche non essere troppo choosy (schizzinoso, ndr), come dicono gli inglesi. Lo dicevo sempre ai miei studenti. Prendete la prima, poi da dentro vi guardate intorno”. Contestata durante un incontro con i giovani a Nichelino, il ministro ha dovuto lasciare la conferenza e, solo in seguito con i cronisti, ha corretto il tiro dicendo che i giovani “sono disposti a prendere qualunque lavoro,tant’è che sono in condizioni di precarietà. Nel passato quando il mercato del lavoro consentiva cose diverse, qualche volta poteva capitare, ma oggi i giovani italiani non sono nelle condizioni di essere schizzinosi”. Decisamente tempi poco propizi per queste esternazioni, dato il livello raggiunto dalla disoccupazione giovanile. Un male che non affligge solo l’Italia, ma l’intera Europa. Il plotone dei 14 milioni di disoccupati nei Paesi Ue costa ai cittadini 153 milioni di euro: si tratta dei giovani inattivi, tra i 15 e i 29 anni, che vivono nell’Ue a 27 ma che non hanno un impiego, non studiano e non cercano un’occupazione. E’ la Neet (Not in Education, Employment or Training) Generation che, se reintegrata nel tessuto produttivo potrebbe alzare il Pil europeo dell’1,2%. Un’occasione persa, dunque, per un esercito di ragazzi “persi” che in Italia raggiungono il 35% del totale contro il 15,4% della media europea. «C’è una scarsa valorizzazione del capitale umano perchè in Italia non si espandono i settori della ricerca e dell’innovazione – dice Alessandro Rosina, professore di Demografia all’Università Cattolica e Presidente dell’associazione Italents a ilsussidiario.net. Sono inoltre scarsi gli investimenti nei percorsi professionali che permettono di immettere i ragazzi direttamente nel mondo del lavoro».
Professore, è un problema di orientamento?
Certo, la spia è il numero rilevante di giovani che non riescono a trovare un lavoro attinente ai propri studi, o che dopo il percorso formativo si dicono scontenti e, guardando indietro, affermano che avrebbero scelto un altro tipo di studi. Tutto questo denota scarsa capacità di orientamento che finisce per pesare sulle opportunità di impiego e sul mercato del lavoro.
Un mercato del lavoro che, secondo i dati che indicano le stime storicamente più basse di giovani occupati, ha davvero poche possibilità da offrire.
Viviamo in un Paese che non cresce e che crea pochi spazi di inserimento per chi si appresta a iniziare una carriera lavorativa. Valorizza poco i giovani e investe pochissimo in quei settori che possono fare la differenza come, ad esempio, la ricerca e l’innovazione. Gli altri Paesi hanno capito che investire in questo campo significa dare spazio e opportunità ai giovani che possono così trasformare le proprie idee in prodotti e servizi che arricchiscono il mercato. Insomma, mettere in connessione, all’interno di un percorso virtuoso, occupazione dei giovani, espansione del mercato e crescita. Questo, fra l’altro, causa la fuga all’estero dei nostri laureati più validi che decidono sempre più spesso di abbandonare l’Italia per realtà che scelgono di puntare sui giovani.
Il punto dolente, forse, può essere costituito anche dalla formazione?
Sicuramente. I paesi con una bassa percentuale di Neet, come ad esempio Germania e Olanda, combinano scuola e lavoro che significa esperienze lavorative già dagli ultimi anni delle superiori. Purtroppo, in Italia formazione e impiego non sono uniti ma in sequenza: dopo il diploma o la laurea i giovani si affacciano sul mondo del lavoro, ma non sanno che strada prendere e faticano a inserirsi adeguatamente.
I giovani con basso livello di scolarizzazione costituiscono una buona percentuale dei Neet. Secondo lei c’è poca propensione ai lavori manuali o è, ancora una volta, un problema formativo?
Entrambe le cose sebbene il problema maggiore è la scarsa valutazione dei percorsi professionalizzanti. Inoltre, c’è un matching carente fra la domanda delle aziende che richiedono personale specializzato in mansioni manuali e artigianali e giovani disoccupati che avrebbero, invece, tutte le competenze per ricoprire questi ruoli. C’è poi un altro grande limite tutto italiano.
Quale?
Mentre negli altri Paesi a vent’anni i ragazzi vengono abituati a essere autonomi e autosufficienti, quindi naturalmente spinti a integrarsi nel mercato del lavoro, un giovane italiano non è incentivato a cavarsela da solo per l’eccessivo aiuto offerto dalla famiglia di origine. Questo finisce per abituare i giovani a restare a casa sino ai trent’anni e procrastina l’entrata nell’età adulta che, inevitabilmente, diventa sempre più traumatica causando grosse difficoltà di adattamento.
C’è il rischio, piuttosto grave, che i giovani rinuncino a una partecipazione democratica all’interno della società?
Sicuramente sono più incentivati a sentirsi figli che pienamente cittadini e agire democraticamente per cambiare un sistema che fatica a mettere in gioco la loro generazione. Consideriamo, poi, che in Italia non ci sono strumenti e incentivi pubblici: insomma, un sistema di welfare che sostenga l’autonomia dei giovani, proporzionale a un ruolo attivo anche all’interno della società. Dunque, ciò che negli altri paesi i giovani ottengono di diritto, in Italia cade dall’alto, sottoforma di favore, dalla famiglia, vero motore sociale della nazione. Non a caso, abbiamo maggiori vincoli anagrafici di partecipazione come il fatto di poter entrare in Parlamento solo dopo i 25 anni e, in Senato, compiuti i 40. Anzichè considerare i giovani come l’avanguardia del cambiamento e portatori di innovazione nella società e nel mercato del lavoro, li riteniamo soggetti immaturi e da tenere in panchina.