È notizia di queste ore lo stralcio della riduzione Irpef preannunciata dal Governo nella Legge di stabilità a favore del mantenimento dell’Iva al 10% (salirà invece al 22% la soglia più elevata) e, soprattutto, della riduzione del cuneo fiscale, ovvero il divario tra costo del lavoro e netto percepito dal lavoratore, come noto assai elevato nel nostro Paese. Non si sa ancora quale sia la componente degli oneri che gravano sugli stipendi che sarà tagliata e in che dimensione.
È chiara invece la scelta politica, voluta tanto dal Pdl quanto dal Pd: preferire un intervento di alleggerimento fiscale sui lavoratori più che, indistintamente, sulle fasce deboli della popolazione. Indipendentemente dalle soluzioni che si adotteranno, comunque, quel che è certo è che questo provvedimento non può “camminare” da solo. Per quanto necessaria, la riduzione del costo del lavoro, se confermata nella sua generalità, rischia di essere talmente ridotta da non riuscire a incentivare anche maggiore produttività o, ancor meglio, più occupazione. Si tratterebbe, quindi, di null’altro che un modo per distribuire più reddito.
È certamente un’azione ragionevole e sarebbe superficiale criticarla con un illogico “si potrebbe fare di più”. Poco è sempre più che nulla e la gravità della pressione fiscale sul lavoro non permette atteggiamenti “choosy”. Ciò detto, è irrinunciabile l’altra gamba degli interventi fiscali sul lavoro: lo sgravio del salario di produttività. Un disegno ben compiuto permetterebbe così sia di alleggerire le imprese di parte del costo del lavoro (con contestuali euro in più in busta paga), sia di incentivare maggiore produttività del lavoro. Minore “spesa” e maggiore “rendimento” potrebbero garantire anche maggiore occupazione.
Il Governo ha stanziato 1 miliardo e 600 milioni proprio per la produttività, condizionandoli al buon esito del tavolo di confronto delle Parti sociali sulle modalità di utilizzo dei fondi. Purtroppo l’accordo fatica a concretizzarsi, schiacciato dalle diverse posizioni delle associazioni datoriali. La soluzione che sarà preferita, con buona probabilità, sarà quella di una riproposizione della norma del 2010, che legava la detassazione alla sottoscrizione di accordi aziendali o territoriali volti a incrementi di produttività, qualità, redditività, innovazione, efficienza organizzativa.
Oltre al minor costo del lavoro, una soluzione così strutturata è adatta anche a diffondere il secondo livello di contrattazione, il più idoneo per negoziare soluzioni per una maggiore competitività. In questo disegno, carico di aspettative positive, stona forse il Decreto Interministeriale del 5 ottobre 2012, secondo il quale i datori di lavoro che entro il 31 marzo 2013 stabilizzeranno rapporti di lavoro a termine, di collaborazione coordinata (anche in modalità progetto) e di associazione in partecipazione che coinvolgono uomini con meno di 30 anni e donne di qualunque età, possono essere ammessi a un incentivo pari a 12 mila euro.
Beninteso: la misura è sicuramente positiva nell’ottica del sostegno all’occupazione giovanile e femminile. L’importo del beneficio è certamente capace di convincere molti datori di lavoro a procedere con l’assunzione. Ciò che invece pare fuori coro è la filosofia dell’intervento. La storia degli incentivi al lavoro ci insegna che tali fondi vengono prevalentemente utilizzati di chi avrebbe comunque assunto i lavoratori. Se questo è stato vero in passato, ancor più lo è ora, dopo la legge Fornero che ha messo all’angolo normativamente tutte le forme contrattuali diverse dal lavoro a tempo indeterminato.
Gli imprenditori che si trovano quindi nell’impossibilità di proseguire i rapporti di lavoro nelle modalità precedenti sono migliaia e da più parti il Ministero è pressato da richieste di normative speciali e previsione di eccezioni. La misura pubblicata il 5 ottobre finisce così per essere un alleggerimento degli effetti della riforma Fornero e, probabilmente, una prova indiretta dell’incapacità della legge 92 di comprendere il mercato del lavoro italiano.
È citata frequentemente l’affermazione del prof. Biagi circa l’impossibilità per un incentivo economico di correggere un disincentivo normativo. È la situazione attuale: se oltre a sostenere indirettamente l’entrata in vigore della legge Fornero non si avrà la forza di metterci mano nella parte dedicata alla cosiddetta flessibilità in entrata, questi fondi non potranno che avere effetti di breve termine che drogheranno il mercato del lavoro, senza però correggerne l’architrave e la solidità nel tempo.
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