Il mercato del lavoro ha mostrato (dati Istat marzo 2017) andamenti positivi per tutti gli indicatori. È la prima volta da quando è iniziata la crisi. I risultati non sono eclatanti, ma confermano un trend costante e il ritorno al dato di occupati che vi erano prima della crisi non appare più come una chimera. Oltre alla crescita del numero di occupati, si registra un’inversione di tendenza nei contratti. L’aumento del tasso di fiducia delle imprese si è trasformato in una crescente applicazione del tempo indeterminato, che risulta superiore ai contratti a tempo determinato. Vi è inoltre un segnale positivo nel calo della disoccupazione.
Nell’ambito di questi dati, anche l’occupazione giovanile risulta gratificata. La crescita registrata nella fascia giovani supera quella dell’occupazione anziana. Il tasso di occupazione cresce mediamente dell’1,4%, mentre il dato giovanile (ponderato sul peso demografico) supera il 2%. Facendo un passaggio logico, ma non supportato dai dati, possiamo ritenere che anche i giovani abbiano avuto un aumento di contratti a tempo indeterminato. Sarebbe questo un segnale importante per affrontare le politiche attive per l’inserimento al lavoro dei giovani, rivedendo le attuali situazioni che privilegiano contratti che è difficile ritenere veri contratti di lavoro.
Per l’inserimento al lavoro dei più giovani vi sono, oltre ai contratti generali, tre forme privilegiate: apprendistato, stages e tirocini. Tutti e tre i contratti sono finalizzati a favorire un’esperienza lavorativa che sia anche a carattere formativo. Sono sia per le persone che per le imprese momenti di “prova”. Si impara cos’è realmente il lavoro, che molto spesso è diverso da quanto appreso nei corsi di studio, e l’impresa prova una persona per valutare, oltre alla formazione di base, quelle competenze non formali da cui trarre un giudizio complessivo e decidere se proseguire nel rapporto. Stages e tirocini sono per questo limitati a periodi brevi, pagati obbligatoriamente da poco tempo e con cifre più da paghetta dei genitori che non da reale salario; hanno oneri molto contenuti e senza effetti per l’apertura di un percorso pensionistico per i giovani.
Costano poco, ma non sono contratti di lavoro effettivi, non hanno tutele per quanti coinvolti. Date queste caratteristiche, hanno anche dei limiti e una persona non dovrebbe essere inserita con queste forme più di una o due volte nel corso della sua vita lavorativa. Nonostante la facilità dei controlli attraverso le comunicazioni obbligatorie, ciò non avviene. Il risultato è che sono diventati i simboli del calvario di precariato attraverso cui passano i giovani in cerca di lavoro. Più l’investimento in formazione e occupabilità è stato scarso o sbagliato, più le forme contrattuali di lavoro che definirei ibride diventano la forma con cui vengono inseriti per più volte in occupazioni saltuarie e sottopagate, creando poi un esercito di Neet, giovani scoraggiati che non studiano e non lavorano.
Per quanto riguarda l’apprendistato, si tratta invece di un vero e proprio contratto di lavoro finalizzato, nei tre livelli con cui è normato, a portare l’apprendista ad acquisire una qualifica sempre più crescente parificata con titoli di studio equivalenti, ma soprattutto con competenze professionali certificate. Una progressiva semplificazione degli oneri burocratici e una contribuzione vantaggiosa sono stati introdotti per fare in modo che diventi il contratto principale per l’inserimento al lavoro dei giovani.
Il programma Garanzia Giovani ha proprio l’obiettivo di proporre inserimenti lavorativi per i Neet. È stato annunciato in questi giorni che sarà rifinanziato e avrà quindi una seconda fase. I fondi utilizzati possono essere finalizzati a dimostrare come le politiche attive possano rappresentare una reale svolta per il nostro mercato del lavoro.
Le Regioni decidono, per quanto riguarda le risorse messe a disposizione, come queste vengono ripartite fra i diversi obiettivi. Con la prima fase di Garanzia Giovani è risultato che stage e tirocini sono stati di gran lunga la proposta fatta ai giovani che si sono registrati nel programma. In Italia, con un risultato anomalo rispetto agli altri paesi europei, oltre il 60% dei giovani si è visto proporre da un programma ad hoc le stesse proposte che già aveva dal mercato.
Alcune ricerche in via di pubblicazione, ma anche dichiarazioni di politici attenti ai temi del lavoro, sostengono che comunque oltre il 20% di questi giovani è stato poi confermato con contratti di lavoro almeno a tempo determinato. È un risultato sicuramente positivo e si somma alla positività di un programma che per la prima volta ha introdotto un modello nazionale di servizi di politiche attive per il lavoro. La seconda fase si apre però, come abbiamo descritto, con un mercato del lavoro che sembra aprirsi a prospettive più positive. In questo quadro, orientare le risorse disponibili per favorire inserimenti lavorativi più stabili sarebbe un prendere atto che le politiche del lavoro avviate stanno dando risultati e quindi è possibile operare scelte più mirate.
Mettere risorse su contratti a tempo determinato o indeterminato e per percorsi di apprendistato che formino quelle figure professionali la cui mancanza è lamentata dalle imprese, sarebbe un bel segnale per dire ai giovani che non sono soli a combattere contro un mercato del lavoro che ancora oggi produce più scoraggiati che occupati.