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Come permettere alle aziende di perseguire obiettivi di flessibilità, essenziali sia per la loro crescita competitiva che per quella dell’intero Paese, e, contemporaneamente, evitare che questa flessibilizzazione del lavoro si trasformi nella precarizzazione professionale di un numero sempre più alto di persone?
Questa, oggi, è certamente una delle domande più importanti, un criterio prezioso per misurare l’efficacia della Riforma Fornero. La Riforma, infatti, ha voluto affrontare il ruolo dei contratti a tempo determinato direttamente stipulato tra impresa e lavoratore, nella piena consapevolezza del peso decisivo che essi rivestono nel nostro ordinamento. Questa forma di contratto, percepita come la modalità più adeguata per gestire le esigenze operative delle imprese da una parte, e di sicurezza per il lavoratore dall’altra, ha infatti costituito per molti anni lo strumento di flessibilità per antonomasia. Ma – dobbiamo chiederci – le cose stanno proprio così? E come si è raggiunta questa convinzione diffusa?
La risposta è duplice: anzitutto perché il contratto a tempo determinato è legittimamente apprezzato – soprattutto se pensato in contrapposizione a Partite Iva o collaborazioni di vario genere – per essere un vero contratto di lavoro dipendente, capace di assicurare tutte le tutele del caso. In second’ordine perché si è sempre concepito il rapporto di lavoro direttamente stipulato con l’impresa come un valore in sé, tanto da contrapporlo, per esempio, al contratto di somministrazione che – come è noto – si stipula con un’Agenzia per il lavoro. Si è, quindi, ritenuto che l’intervento di una terza parte all’interno del rapporto di lavoro fosse da considerarsi addirittura di per sé precarizzante.
Ma è davvero così? Il tempo determinato stipulato direttamente tra azienda e lavoratore è veramente il migliore dei contratti possibili per gestire rapporti di lavoro con durata limitata nel tempo? Che un rapporto di lavoro stabilito con un intermediario sia di per sé meno tutelante per il lavoratore rispetto a uno stipulato direttamente con l’impresa, non costituisce per nulla un fatto assodato. Anzi: questa percezione, che nasce probabilmente dalle esperienze negative legate al fenomeno del caporalato, risulta, all’esame dei fatti, sempre più infondata.
Per rivederla criticamente occorre, però, fare lo sforzo di superare alcune barriere – non solo mentali – quali, ad esempio, quelle costituite dai conflitti di interessi vigenti tra i diversi sindacati di categoria, da una parte, e quelli degli “atipici” dall’altra: ciascuno, infatti, tende a sostenere l’uno o l’altro strumento in funzione del numero di iscritti che ritiene di poter raggiungere o mantenere.
A ben guardare, tuttavia, se consideriamo la sicurezza offerta ai lavoratori dal contratto a tempo determinato stipulato direttamente dall’azienda e la paragoniamo a quella resa possibile dalle Agenzie per il lavoro con il contratto di somministrazione, la prima risulta essere decisamente inferiore. Il lavoratore che entra direttamente in azienda si ritrova, infatti, tendenzialmente solo, le sue competenze vengono utilizzate senza aver cura del loro sviluppo e, fatto ancor più decisivo, il soggetto non viene supportato nei periodi di inoperatività.
Il contratto di somministrazione, al contrario, garantisce flessibilità alle aziende e sicurezza ai lavoratori; eppure, ciò nonostante, fino a oggi le Parti sociali – istituzioni, sindacati, associazioni – non hanno mai adeguatamente considerato il maggior valore introdotto dalla capillare presenza sul territorio delle Agenzie per il lavoro.
Da questo punto di vista, va detto che la Riforma, senza eccessivi squilli di tromba, sembra però aver sovvertito tali radicate convinzioni: esaminando complessivamente e con attenzione le norme varate, va dato atto al ministro Fornero di aver contribuito notevolmente in questo senso. Come? Rendendo estremamente più difficile la reiterazione dei contratti a tempo determinato, mantenendo rigidità nelle proroghe, limitando la durata del rapporto a tempo determinato a 36 mesi – prima di incorrere nell’obbligo di stabilizzare il lavoratore – ed elevando il costo dello strumento con l’addizionale Aspi – che non incide invece nei contratti di somministrazione -, la Riforma ha di fatto implicitamente ribaltato il regime di convenienza a favore dei contratti di somministrazione, confermando una volta per tutte il principio della primarietà della somministrazione come miglior forma di flexicurity rispetto al “normale” contratto a tempo determinato.
La Riforma è divenuta in tal modo portatrice di un messaggio di fondo che, se colto correttamente, può davvero costituire una svolta importante per il mercato del lavoro nel nostro Paese: oltre a voler infatti condurre il più possibile le aziende a utilizzare i contratti a tempo indeterminato quale forma stabilizzante per i lavoratori – fatto, questo, certamente auspicabile, anche se da accompagnare con qualche ulteriore ritocco alla flessibilità in uscita – il Legislatore sembra aver voluto indicare la necessità che ogni contratto venga utilizzato per uno scopo specifico e funzionale al mercato.
Da questo punto di vista, tre sembrano essere le principali vie percorribili: l’apprendistato, per inserire i giovani nel mondo del lavoro, così da ridurre il disallineamento scuola-lavoro e offrire loro la possibilità di un successivo impiego a tempo indeterminato; il contratto a termine, per specifiche esigenze di durata pianificabile, per attività stagionali o per effettuare un periodo di prova con tempi sufficientemente lunghi; il contratto di somministrazione, per corrispondere alle esigenze di flessibilità – sempre più caratterizzanti l’economia globalizzata – che le aziende devono poter attivare, quando occorre, attraverso partner qualificati come le Agenzie per il Lavoro.
Una strada maestra da seguire è dunque emersa. E proprio di questo, nella maggiore condivisione possibile, il nostro Paese ha bisogno, per attraversare i tempi duri che ancora ci attendono e riuscire finalmente a uscire dallo stato di aridità economica e sociale in cui, purtroppo, si trova.