Il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ieri è tornato a lanciare l’allarme sulla disoccupazione, ribadendo che il tasso reale è oltre l’11%, un dato ben superiore a quello Istat (8,2% ad agosto). Chi ha ragione? Lo abbiamo chiesto a Pietro Ichino, giuslavorista e Senatore del Partito democratico, in questa intervista che affronta i temi più caldi relativi al mondo del lavoro.
Professore, partiamo da questo balletto sui dati relativi alla disoccupazione in Italia. Lei che idea si è fatto?
La questione sta tutta nel fatto che l’Istat non computa tra i disoccupati né i lavoratori in Cassa integrazione, poiché formalmente il rapporto di lavoro di cui essi sono titolari non è cessato, ma soltanto temporaneamente sospeso, né coloro che non manifestano la propria disponibilità al lavoro cercando un’occupazione. La Banca d’Italia, invece, bada più alla sostanza che alla forma, computando tra i disoccupati anche coloro che hanno perso il posto e non ne cercano un altro perché “scoraggiati”, dopo aver trovato troppe porte chiuse; inoltre, computa anche i cassintegrati a zero ore.
Secondo lei quale dei due dati è quello da considerare?
Gli “scoraggiati”, certo, sono sostanzialmente dei disoccupati: computarli come tali è necessario, se si vuole avere una visione realistica della quantità di posti di lavoro che sono andati perduti nel biennio di recessione che abbiamo alle spalle.
E i cassintegrati?
Qui il discorso è più complesso: se la legge venisse generalmente rispettata da imprese e sindacati, essi non dovrebbero essere computati come disoccupati: per legge la Cassa potrebbe erogare l’integrazione salariale soltanto nei casi in cui sia ragionevolmente prevedibile la ripresa del lavoro al termine dell’intervento. Nella realtà, però, è molto diffusa la prassi di chiedere – e di concedere – l’intervento della Cassa anche in situazioni nelle quali è certo che la ripresa del lavoro nella stessa azienda non ci sarà. Questo è il motivo per cui gli analisti della Banca d’Italia considerano come disoccupati anche i cassintegrati a zero ore. In questo modo, certo, il dato sulla disoccupazione si avvicina di più alla realtà. È vero che esso così finisce coll’inglobare anche lavoratori il cui rapporto di lavoro è soltanto temporaneamente sospeso, ma è anche vero che il tasso di disoccupazione viene calcolato così anche in molti altri Paesi, come gli Usa, dove ai fini statistici non si fa differenza tra i lavoratori laid off temporaneamente e quelli laid off definitivamente.
In ogni caso la disoccupazione sta salendo negli ultimi mesi rispetto allo scorso anno. Cosa si può fare per aumentare l’occupazione?
Occorre agire nello stesso tempo su due piani: quello dell’aumento della domanda di lavoro e quello del miglioramento dei canali di incontro fra domanda e offerta nel mercato. Ce lo insegnano proprio i tre economisti che hanno ricevuto recentemente il premio Nobel: Diamond, Mortensen e Pissarides.
Incominciamo dal primo livello. Come possiamo aumentare la domanda di lavoro in Italia?
Innanzitutto evitando di far scappare le imprese multinazionali che sarebbero disponibili a investire nel nostro Paese.
C’entra in qualche modo il piano Marchionne per “Fabbrica Italia”?
Sì, ovviamente. Ma la questione è più generale: l’Italia è penultima in Europa per capacità di attrarre investimenti stranieri. Peggio di noi fa soltanto la Grecia. Se soltanto fossimo capaci di recuperare il distacco rispetto ai Paesi di mezza classifica, questo significherebbe la possibilità di avere decine di miliardi di investimenti in più sul nostro territorio. Investimenti che porterebbero non soltanto domanda aggiuntiva di lavoro, ma anche innovazione, che significa aumento della produttività e quindi anche possibilità di miglioramento delle condizioni di lavoro.
Quindi rafforzamento di tutti i lavoratori nel mercato.
Certo. Qualsiasi sindacato serio dovrebbe mobilitarsi per questo obiettivo. Cinque anni fa ho scritto un libro – A che cosa serve il sindacato – proprio per proporre e spiegare questa idea.
Che cosa possiamo fare per aumentare la nostra attrattività nel mercato globale dei capitali?
Tra le cause della nostra scarsa attrattività ci sono, certo, i difetti delle nostre amministrazioni pubbliche, prima fra tutte quella della giustizia; poi i difetti delle nostre infrastrutture stradali e di comunicazione; e i costi troppo alti dei servizi alle imprese, per difetto di concorrenza nei relativi mercati. Ma tra quelle cause di scarsa attrattività ci sono anche la illeggibilità della nostra legislazione in materia di lavoro, caotica e ipertrofica; e l’inconcludenza del nostro sistema delle relazioni industriali, nel quale o tutti i sindacati sono d’accordo, oppure non si possono stipulare efficacemente contratti aziendali che prevedano piani industriali incisivamente innovativi rispetto ai vecchi modelli. Questi ultimi due ostacoli potrebbero essere rimossi a costo zero per le casse dello Stato e in tempi brevissimi.
Veniamo al secondo piano di intervento che lei menzionava prima, quello del miglioramento dei canali di incontro fra domanda e offerta.
Recentemente sono stati pubblicati i dati sugli skill shortages nel nostro Paese: le qualifiche professionali per le quali si registra una diffusa mancanza di offerta di manodopera. Sono centinaia di migliaia di posti di lavoro, che restano scoperti pur in presenza di un alto numero di disoccupati e di giovani in cerca di prima occupazione: posti di impiantista, installatore di infissi, falegname, ebanista, panificatore, tappezziere, elettricista, macellaio, esperto informatico, idraulico, e cento altre qualifiche ancora.
Un problema specifico riguarda i giovani: precarietà e alto tasso di disoccupazione. Che cosa si può fare per loro?
Innanzitutto attivare un buon servizio di orientamento scolastico e professionale, che in Italia esiste ancora soltanto in forma embrionale. Se fosse efficiente e capillare, capace di raggiungere ogni giovane all’uscita da ciascun ciclo scolastico, consentirebbe un più facile incontro fra domanda e offerta per tutti i posti di lavoro scoperti di cui si è detto prima.
E i giovani che cosa possono fare per loro stessi?
Aumentare la loro mobilità professionale e geografica, imparare a conoscere meglio il mercato del lavoro, per affinare le loro strategie occupazionali. Certo, per questo avrebbero bisogno anche di un servizio di orientamento professionale che li aiutasse, li istruisse, li informasse.
È stato approvato il “collegato-lavoro”: cosa le piace e cosa non le piace di questo provvedimento?
Mi piace la norma che rende più precisa la definizione del principio della trasparenza totale nelle amministrazioni pubbliche, rispetto a quella contenuta su questa materia nella legge Brunetta dell’anno scorso. È nata da un emendamento concordato da me con il relatore. Per il resto, disapprovo recisamente questo modo di legiferare caotico e disorganico, che aggrava l’illeggibilità della nostra legislazione del lavoro di cui parlavo prima.
Cosa pensa in particolare della parte della nuova legge relativa all’arbitrato?
A causa di quella caoticità e disorganicità prevedo che anche la nuova disciplina dell’arbitrato non avrà alcuna apprezzabile applicazione: troppo costoso districarsi tra quei quaranta commi e sottocommi; troppo rischioso azzardarsi ad attivare un arbitrato in quel contesto normativo irto di vincoli e trappole procedurali. Se si voleva davvero promuovere l’arbitrato in modo efficace, sarebbe bastata una norma di tre righe, che attribuisse alla contrattazione collettiva la possibilità di vincolare le parti all’arbitrato su tutte le materie di competenza esclusiva della contrattazione stessa. Ho proposto un emendamento che conteneva quelle tre righe: sarebbe stato il modo per fare davvero dell’arbitro “la voce del contratto collettivo”. Ma maggioranza e Governo lo hanno respinto, senza spiegare perché.
Cosa pensa invece dello Statuto dei lavori preannunciato dal ministro Sacconi?
Non ne posso pensare niente, dal momento che è stato annunciato a più riprese, dall’inizio di questa legislatura, ma non se ne è mai vista neppure una prima bozza.
Pensa che a 40 anni di distanza servano delle modifiche allo Statuto dei lavoratoridel 1970?
A me sembra evidente che quella legge vada in larga parte riscritta, innanzitutto per adattarla a un contesto completamente mutato: basti pensare che, quando lo Statuto venne emanato, nelle nostre aziende non c’erano i personal computer, non c’era internet, non c’era la posta elettronica; ma non c’erano neppure i fax e le fotocopiatrici. Lo Statuto va riscritto, poi, anche per consentirne un’applicazione più universale: oggi, quella legge nella sua interezza si applica a meno di metà dei lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza dall’azienda per cui lavorano.
Quali sono le modifiche principali che lei apporterebbe?
Il discorso qui sarebbe troppo lungo. Ho presentato con altri 54 senatori del Pd due disegni di legge – n. 1872 e 1873 dell’11 novembre 2009 – contenenti un nuovo Codice del lavoro semplificato: tutta la nuova legislazione del lavoro contenuta in 70 articoli di semplice lettura e facilmente traducibili in inglese, in sostituzione di 200 vecchie leggi, che dovrebbero essere contestualmente abrogate. Li si possono scaricare agevolmente, oltre che dal sito del Senato, anche dal mio: www.pietroichino.it.
È necessaria una riforma degli ammortizzatori sociali?
Anche questa è delineata in modo molto chiaro e semplice nel nuovo Codice del lavoro: l’idea è di ricondurre la Cassa integrazione guadagni alla sua funzione originaria e nello stesso tempo di rafforzare e universalizzare il sostegno nel mercato del lavoro a chi perde il posto. Il modello è quello della flexsecurity scandinava.
Tornando alle relazioni industriali, Pomigliano può essere un modello per tutte le altre imprese italiane?
Non avrebbe senso considerare l’accordo stipulato in quello stabilimento come un modello per imprese di dimensioni diverse e di altri settori. Però le questioni che Marchionne ha posto a Pomigliano e a cui quell’accordo dà un inizio di risposta positiva hanno portata generale. In particolare, la questione della validità ed efficacia della clausola di tregua sindacale: il modello di relazioni industriali ispirato al principio della “conflittualità permanente” anni ’70 può e deve essere superato, nell’interesse di entrambe le parti.
Cosa pensa del clima sindacale oggi in Italia?
È molto teso, a causa della spaccatura fra le confederazioni maggiori. Contribuirebbe fortemente a distenderlo un accordo interconfederale, firmato da tutti, sui criteri di verifica della rappresentatività nei luoghi di lavoro, che detti una disciplina chiara della legittimazione a negoziare al livello aziendale modifiche alla disciplina contenuta nel contratto collettivo nazionale. È proprio l’assenza di una disciplina chiara della materia la causa principale di quel difetto del nostro sistema di relazioni industriali di cui abbiamo parlato all’inizio: la sua inconcludenza, il potere di veto attribuito di fatto ai sindacati minoritari.
Il comportamento della Fiom sta mettendo a rischio le relazioni industriali?
La metterei in un altro modo: il comportamento della Fiom corrisponde a una visione e strategia sindacale diversissima rispetto a quelle di Cisl e Uil; e anche di un’altra parte, assai rilevante, della Cgil. In un regime di pluralismo sindacale, quale è il nostro, non dovrebbe essere considerato patologico il fatto che visioni e strategie diverse si confrontino e competano tra loro. Il problema, oggi, è che il sistema non è attrezzato per dirimere il contrasto, proprio per la mancanza di quella regola di democrazia sindacale di cui si è appena detto; cosicché, dove il contrasto si manifesta, esso genera paralisi.
I sindacati italiani dovrebbero, come qualcuno ha detto, guardare al modello tedesco di relazioni industriali?
Se ci riferiamo al modello della Mitbestimmung, ovvero della codecisione nelle aziende di grandi dimensioni, penso che esso difficilmente potrebbe essere trapiantato nella maggior parte delle nostre imprese. Quello che dobbiamo imparare dai tedeschi, ma anche dagli svedesi, dagli olandesi e da tanti altri Paesi del Nord-Europa, è la cultura industriale, che consente di far precedere a qualsiasi negoziato una sessione di confronto tecnico, dalla quale esce un quadro condiviso da entrambe le parti dei vincoli da rispettare e degli obiettivi da perseguire. A quel punto la trattativa sull’organizzazione del lavoro e sulla ripartizione dei suoi frutti tra salari e profitti è molto più facile e ha una probabilità molto maggiore di portare a risultati effettivi.