L’introduzione di un congedo parentale frazionato in ore per i genitori lavoratori, allo studio nell’ambito di un complessivo decreto “salva-infrazioni” per evitare multe dall’Ue, non sarebbe solo un buon modo per scongiurare l’apertura di un procedimento a carico del nostro Paese, ma anche un modo per sottrarre finalmente il dibattito sulla conciliazione tra famiglia e lavoro all’ideologia.
Di fatto, il problema dell’accudimento dei figli, soprattutto nei primi anni di vita, è stato finora affrontato in termini assoluti: complice la rigidità dell’organizzazione del lavoro che ha spesso costretto i genitori lavoratori, e in particolare le madri, a una scelta obbligata di fronte a un’alternativa netta – o la totale delega educativa e affettiva, o le dimissioni.
Una ricerca presentata pochi giorni fa dalla provincia di Reggio Emilia ha mostrato come nel territorio reggiano 3 donne su 10 si dimettano per occuparsi della famiglia; e ogni 10 neomamme che tornano al lavoro, 2 si dimettono dopo il primo anno di vita del bambino. Infine, il 42% di quelle rientrate dichiarano di averlo fatto con sensi di colpa verso il bambino: e tutto questo proprio in una delle province meglio dotate di servizi di assistenza all’infanzia, soprattutto in paragone al resto d’Italia. Segno inequivocabile che la chiave non sta solo nella disponibilità di asili nido – che rispondono a un’esigenza, ma non esaudiscono un desiderio profondo -, ma anche, e soprattutto, di soluzioni alternative e flessibili.
Flessibile il congedo parentale, meglio noto come astensione facoltativa, lo è stato finora ben poco: il fatto che non potesse essere fruito se non a blocchi mensili o settimanali – e più di recente in singole giornate – ha favorito la sua interpretazione come un “esilio” lavorativo, una parentesi netta nella carriera, spesso con conseguenze nefaste per quest’ultima. Comprensibile, quindi, che in Italia fossero soprattutto le madri – generalmente peggio retribuite, e meno favorite dai percorsi di crescita – a optare per il congedo, mentre i padri sono rimasti quasi totalmente estranei alla sua fruizione.
La possibilità di fruire del congedo anche a ore, che equivale di fatto a un diritto al part-time per i primi anni dei figli, consentirebbe ora di rivedere questa interpretazione, e di rimettere in discussione l’alternativa tra la dedizione alla carriera e quella alla famiglia.
Oltre che facilitare la vita al genitore che ne usufruisce, questa misura renderebbe meno netto, più graduale e integrato il passaggio dalla dimensione lavorativa a quella familiare e viceversa, e scongiurerebbe l’impatto devastante che l’astensione in blocco portava con sé.
Molto più che una legge sull’obbligo del congedo di paternità, che equivarrebbe all’introduzione di un nuovo lacciuolo (peraltro facile da eludere) nella già nutrita selva delle rigidità del nostro welfare, il congedo a ore potrebbe incoraggiare i padri lavoratori a dedicarsi all’accudimento dei figli neonati, senza timore di essere per questo depennati dalla lista dei lavoratori più diligenti o promettenti. E chissà che alla tanto agognata parità non si arrivi proprio attraverso la flessibilità.