Dopo tre mesi vissuti avventurosamente il nostro Paese ha, finalmente, un premier e un Governo. Interessante, quindi, capire cosa il nuovo esecutivo sarà in grado di realizzare di quanto proposto/promesso nella campagna elettorale e condiviso nel contratto per il governo del cambiamento. Si pensi, ad esempio, al reddito di cittadinanza. Nell’intervento al Senato il neo premier del governo giallo-verde ha voluto evidenziare come, negli ultimi anni, anche in Italia, come in altri Paesi occidentali, le diseguaglianze si siano, ahimè, aggravate e le povertà moltiplicate.
Da ciò deriva, almeno secondo l’analisi dell’avvocato Conte, che, in Italia, a coloro che vivono in condizioni di disagio socio economico è preclusa la possibilità di sviluppare a pieno la propria personalità e di partecipare in modo effettivo all’organizzazione politica economica e sociale come ci ricorda l’art. 3 della nostra Carta Costituzionale. L’obiettivo, quindi, del Governo sarà, nei prossimi anni, quello di assicurare un sostegno al reddito a favore delle famiglie più colpite dal disagio socioeconomico: l’ormai “famoso” reddito di cittadinanza. Il beneficio verrà commisurato alla composizione del nucleo familiare e sarà, ovviamente, condizionato alla formazione professionale e al reinserimento lavorativo.
La misura partirà, però, per step successivi. In una prima fase verrà posta l’enfasi sulla necessità di rafforzare i Centri per l’impiego in modo da agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e solo successivamente verrà erogato il sostegno economico vero e proprio. Ma quale lo stato di salute dei nostri Centri per l’impiego? Il periodico monitoraggio dell’Anpal, pubblicato per una strana coincidenza lo stesso 5 giugno, ci può certamente aiutare a capire.
Emerge così che risultano essere operativi sul territorio nazionale solamente 7.934 operatori. In questo quadro la regione con il maggior numero di dipendenti risulta essere, come spesso accade, la Sicilia che ne ha ben 1.737. Colpisce poi come i il 56% di chi opera nei Cpi abbia conseguito solamente un diploma di scuola superiore e solo pocopiù del 28% sia in possesso di un titolo universitario o superiore.
Il 12% circa del personale di quelli che furono gli uffici di collocamento ha poi solamente un titolo di licenza media inferiore. Un dato, peraltro, che emerge con forza notando come questo cambi, nettamente, quando si vada a vedere il profilo degli operatori più precari (come nel caso dei collaboratori con contratti a tempo determinato) che, altresì possiedono una laurea nel 75% dei casi.
In questo contesto si manifesta, quindi, l’inadeguatezza numerica, ma anche, se non soprattutto, delle competenze, del personale che opera nei diversi Cpi del territorio: ben l’83,5% delle strutture considera, infatti, il proprio personale insufficiente con una richiesta media di personale aggiuntivo di 11 unità.
Dalla lettura di questa analisi, per alcuni aspetti impietosa, potrebbe/dovrebbe iniziare, insomma, la sfida per la realizzazione del reddito di cittadinanza all’italiana.