Marchionne e Renzi hanno avuto in questi mesi un rapporto altalenante. Partito con un giudizio liquidatorio su un sindaco troppo arrivista, il manager di Fiat è diventato il migliore sostenitore del Jobs Act con una dichiarazione che rilancia la capacità dell’azienda di fare occupazione di qualità grazie ai nuovi contratti introdotti dalla legge. Il presidente del consiglio, invece, da censore delle scelte sulla sede legale e sulle richieste del manager Fiat è diventato il miglior propagandista dei nuovi modelli di auto che ha visto in anteprima nella visita agli stabilimenti torinesi.
Dietro questo cambiamento ritengo che vi sia più sostanza di quanto hanno fatto trapelare i giornali ormai molto attenti alle frasi a effetto e sempre più distratti quando si tratta di indagare sulle ragioni che portano a cambiamenti tanto significativi.
Il Jobs Act ha espresso la volontà di mettere mano all’insieme di quelle regole che hanno fatto del mercato del lavoro italiano il regno dell’immobilismo. Con l’obiettivo di rimettere in moto le forze del lavoro, imprenditori e lavoratori, perché possano contribuire a una nuova fase di ripresa economica.
Tutte le misure previste nei provvedimenti che compongono il Jobs Act vanno nella direzione di togliere vincoli e ridisegnare le tutele, con una visione dell’impresa dove al conflitto permanente si sostituisce un percorso di collaborazione e condivisione dei risultati. Ciò indica, nelle norme relative alla rappresentanza sindacale e nelle nuove forme contrattuali, la sfida che si svolgerà nel Paese nei prossimi mesi e che avrà come protagonisti le organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle imprese. La politica potrà sostenere questa fase intervenendo a sostegno con una legislazione che recuperi quanto era già stato introdotto tempo fa sulla rappresentanza, ma non potrà che partecipare indirizzando e sostenendo le tesi più aperte nell’ambito del dibattito che vedrà impegnate le parti in causa.
È su tali punti che Marchionne salutò Confindustria due anni fa rimarcando come fosse la stessa organizzazione industriale incapace di proporre forme di rappresentanza aziendale e proposte di contrattazione a sostegno di una nuova fase di crescita economica e delle problematiche poste dai nuovi cicli produttivi. È quindi sui capisaldi di un nuovo patto fra i produttori che si incontra la proposta riformatrice di Renzi con la visione di nuovi rapporti aziendali e sindacali sviluppata da Marchionne. È un terreno che sfida sia il conservatorismo confindustriale, sia quello di Cgil, Cisl e Uil.
Confindustria ha preso atto nel corso della discussione sul Jobs Act di dover tornare ad avere una sua proposta autonoma e ha cercato di rimodulare molte delle sue proposte. Il peso di abitudini burocratiche e di un lungo periodo corporativo non hanno ancora permesso di avanzare con chiarezza proposte innovative che siano di sostegno a un mercato del lavoro più dinamico. Per certi versi vale anche per Confindustria l’idea di “non avere nemici a sinistra”. Il risultato è stato di aver concesso ad altri potere di veto e non aver sviluppato una posizione originale che tenga conto di quanto la globalizzazione ha influito nel cambiare i processi produttivi.
Fra i sindacati dei lavoratori la situazione è ancora più complessa. Quest’ultimi anni, a causa di una deriva sempre più politica della Cgil, hanno portato a posizioni sempre meno unitarie. Ogni organizzazione sta cercando in modo autonomo di affrontare il cambiamento e solo dopo il tema di arrivare a ridisegnare un’unità sindacale.
La Cisl si presenta certo più strutturata di fronte alle sfide attuali. La propensione a non tirarsi mai indietro rispetto alle trattative, l’assenza di vincoli ideologici verso le imprese, la possibilità di riprendere il tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, fanno sì che sia l’organizzazione che più delle altre ha avuto la capacità di partecipare alle fasi di ristrutturazione con proprie originali piattaforme e di proporre una contrattazione aziendale e territoriale da cui prendere le poche best practices di questo periodo.
Il segno di maggiore arretratezza viene però dalla principale forza sindacale. La Cgil appare oggi subalterna alla Fiom, con una deriva verso posizioni politiche minoritarie nella stessa sinistra italiana. Il caso dello sciopero di Pomigliano che ha visto l’adesione di soli 5 operai commentato con un “ci vorrebbe un monumento per questi eroi”, sommato con il risultato inferiore al 15% ottenuto nelle elezioni delle rappresentanze aziendali Fiat, indica un ritorno a posizioni da “pochi ma buoni” che non si sentivano da oltre un secolo, quando il sindacato vedeva ancora posizioni luddiste ed anarchiche.
La Fiom può diventare però il cavallo di troia di chi vuole un sindacato solo di categorie portando a scioglimento la confederazione. Su questo rischio la risposta della Cgil non può essere di sfilare assieme a sostegno del nuovo governo greco. La fase di rilancio economico chiede invece che vi siano buone rappresentanze nelle fasi contrattuali. Abbiamo bisogno di rappresentanze che archivino la vecchia concezione conflittuale e siano in grado di partecipare attivamente con proposte proprie a indicare nuove soluzioni per contrattazioni sempre più articolate per azienda e per territori.
A fronte di picchi di produzione che richiedono una maggiore capacità di risposta produttiva, aprire conflitti per nuove assunzioni significa non sapere leggere i mutamenti avvenuti nei mercati mondiali e come sono cambiati i cicli produttivi. Se le organizzazioni sindacali oltre a gestire i conflitti tornassero a essere anche organizzatori di risposte al bisogno di lavoro delle persone e avessero seguito i mutamenti avvenuti, avrebbero appreso che flessibilità non è precarietà e che servono nuove tutele proprio per sostenere i nuovi lavoratori.
Da qui possono partire nuove proposte per una contrattazione che sia sostegno per una crescita economica che sappia creare nuova occupazione e sostenere un mercato del lavoro più efficace ed efficiente.