Non c’è che dire, Gentiloni sembra aver proprio deciso di farci morire democristiani. E pare che la cosa cominci a far piacere a un sacco di gente che fino a ieri invece vedeva questa prospettiva con terrore (e non si capisce bene se il timore era legato alla morte in sé o alla morte in odore di vecchia “Balena Bianca”). E come tutti i democristiani che si rispettino, il nostro primo ministro si muove per legiferare senza però voler cambiare troppo; per riformare, non per rivoluzionare. Felpato e circospetto, onora il mandato “cambiamentistico” che gli ha dato Renzi, ma senza la bulimia che spinse il “giovine fiorentino” a voler trasformare tutto, in fretta e subito. Anche perché egli sa bene che ha di fronte un unico avversario, sia pure nascosto sotto tante e diverse spoglie: i suoi nemici, infatti, sono pronti ad accusarlo contemporaneamente e simultaneamente, di aver cambiato; di non aver cambiato; di aver cambiato male; di aver cambiato bene ma non abbastanza; di aver cambiato quel che non doveva essere cambiato; di aver cambiato quel che si doveva cambiare ma tra qualche tempo; che ben altro andava cambiato o anche di aver cambiato solo lo stretto necessario. Critiche che gli sarebbero rivolte non nella speranza che Gentiloni cambi davvero qualcosa, ma nella segreta convinzione che nulla si deve cambiare.
Per qualcuno, infatti, questo immobilismo ha da essere in nome del grande conservatorismo, per qualcuno in nome del perfezionismo, per qualcun altro in nome del “quando arriverò al Governo farò tutto io”. Sta di fatto che c’è in Italia un partito dell’immobilismo. E di fronte a esso sta un partito del lento (forse troppo lento e prudente, a nostro avviso) riformismo.
Prendiamo ad esempio la questione dei voucher: dopo aver annullato il rischio elettoral-referendario e dopo aver consegnato una vittoria alla Cgil e al partito anti-renziano, ora, nel più classico dei colpi cerchiobottisti, il nostro premier avanza lentamente l’idea di reintrodurre quello strumento che tutti, compresi i promotori dei referendum, ritenevano utili e indispensabili. O almeno così pare, a ore alterne e a seconda di chi parla, perché questo è un argomento in costante divenire, fonte benvenuta di polemiche politiche e assatanati discorsi ideologici. Sul quale poi, per completare l’opera, ogni livello della nostra santa burocrazia, ogni dipartimento dei nostri immacolati ministeri, ritiene di dover dire la sua, di doverci mettere la propria virgola.
Oppure prendiamo un’altra vicenda, anche questa fonte di inenarrabili (e quindi inutili) polemiche: quella dell’Ape, intesa non come il grazioso insetto che se non ti punge fa bene alla natura, bensì come l’Anticipo pensionistico, che poi a sua volta si divide tra le due sottospecie di Ape “Social” e Ape “normal”.
Ecco, l’Ape dovrebbe consentire di risolvere una parte dei problemi generati dalla Fornero, ex ministro del governo Monti ed esperta di problemi pensionistici, ma anche colei che ha generato complicazioni tanto grandi quanto grande è la sua competenza. Come dire che qualche volta è meglio saper poco di certi argomenti: perché se nessuno è immune da errori, gli errori degli esperti rischiano spesso di essere davvero fuori graduatoria. L’Ape, dice il ministro Poletti, è la via di uscita alla pensione solo per gli ultrasettantenni, al blocco del turn over, all’usura di lavori insopportabili a una certa età. Perché, come dice la vulgata, se insegnare all’Università a settant’anni è piacevole, meno piacevole è alla stessa età aver a che fare 8 ore al giorno con gli scatenati nativi digitali della scuola primaria, o sollevare ogni ora un anziano non autosufficiente, o fare gli equilibristi sui ponteggi edili.
Ma è davvero così? Davvero l’Ape, quella Social, in particolare, sarà una soluzione? Lo vedremo: certo essa fa parte di un’importante intesa che finalmente trova un suo primo sbocco legislativo, cui è legato anche il tema più generale dell’Ape volontaria: ricordiamo, en passant, che la Social riguarda coloro che hanno più difficoltà economiche, l’Ape volontaria invece è rivolta a tutti. Nei fatti essa è un prestito che consente di andare in pensione prima, senza vedersi comminare riduzioni e tagli troppo profondi al proprio trattamento. L’Ape sta entro un quadro generale, si inserisce in un momento di risistemazione del complesso tema pensionistico, e forse sarà anche per questo, e non solo per il suo democristianissimo DNA, che Gentiloni si muove con cautela, assaggiando il terreno prima di poggiarvi il piedi, meditando su ogni passo che compie.
Sta di fatto che a oggi il quadro, delineato nella intesa raggiunta mesi or sono, è ancora in via di completamento, e sta anche di fatto che in questo spazio di tempo molti dei problemi non trovano ancora soluzione. Così è per i muratori: categoria in crisi per mancanza di lavoro, mancanza di prospettive, per un mercato fermo. Ma anche perché lo spostamento dell’età di messa in quiescenza blocca ogni possibile assorbimento della manodopera, oltre che far aumentare i rischi di incidenti sul lavoro, legati alla durezza dello stesso e alla età sempre più avanzata di chi lo esercita. Così si capisce perché i sindacati di categoria proprio in queste ore si sono mobilitati per chiedere con un’iniziativa alcune modifiche nei calcoli per poter aderire anch’essi alle ultime novità.
Al di là di tutto, sostanzialmente, il dato è che, politicamente, quell’accordo il Governo lo sta gestendo con una velocità un po’ rallentata rispetto alla spinta che viene dalla gente e dalle sue aspettative: rallentamento frutto di timori, ma anche della complessità della materia di cui ci si rende conto sempre e solo durante la fase operativa.
Ma c’è un secondo dato legato alle novità annunciate dal ministro Poletti, ed è un dato che non è possibile sottovalutare, trattandosi di un cambiamento di importanza epocale. Per accorgersene basta analizzare il fatto che quell’accordo trasversale aveva in sé un forte mutamento culturale perché con esso si declinò un principio che fino ad allora era marginale, di nicchia, e che invece divenne generale. Fino ad allora, infatti, tutti i lavori erano uguali, e quindi tutti i lavoratori erano uguali, tranne alcuni, una nicchia, una piccola setta, che svolgendo quelli che erano denominati “lavori usuranti” potevano godere di condizioni particolari. Diversi come lo erano stati i dipendenti pubblici fino agli anni ’70, costoro potevano andare in pensione prima di tutti gli altri, godendo di particolari benefici. Era una nicchia, uno spiraglio: ma quel che prima era marginale, ora è divenuto strutturale, perché quando non si riconosce più che tutti i lavori sono uguali, implicitamente si dice che non si va più in pensione tutti insieme.
Il che è un bello slogan, efficace, attraente, degno perfino di una riflessione sociologica. Ma dal punto di vista operativo porta con sé conseguenze micidiali: quando si afferma il principio della diversità dei lavori, quando si decide anche di entrare nel merito, allora bisogna definire i criteri della diversità, bisogna infarinarsi le mani, scendere nel particolare. Laddove cioè il demonio, tremendo amante di tutto ciò che è singolare, si nasconde. Quali criteri distinguono i lavori e quindi i lavoratori? Le condizioni di lavoro stesse? Le condizioni legate alla preparazione scolastica? Le fatiche fisiche? La riciclabilità sul mercato? Cos’è usurante? Su chi metto quei pochi soldi che, come Stato, ho?
L’accordo tra sindacati e Governo sulle pensioni ha introdotto nella materia pensionistica una variabile non numerizzabile, non traducibile in numeri. Pensiamoci bene: una volta per andare in pensione si calcolavano gli anni e i mesi di versamento: ora sempre più si dovrà introdurre una diversificazione, che è fatta di qualità, non di quantità. Questo è un segnale del cambiamento ormai irreversibile in atto dalla “economia lineare” a quella “circolare”: un tempo il percorso per ognuno era chiaro e netto, predeterminato e prevedeva che dalla scuola si andasse al lavoro e poi in pensione. Da ora in poi invece in cui i tre elementi interagiscono lungo l’intero percorso della vita di ognuno: si studia per tutta la vita (long learning life), si lavora mentre si studia, si accumula la pensione sia durante il lavoro che extra lavoro, si va in pensione ma si può ancora lavorare (e non in nero!), migliorando le proprie rendite finanziarie.
Cambia il panorama: come cambieranno i nostri atteggiamenti? Chiediamocelo e riflettiamo, perché è certo che il “Vaffa al sistema” non cambia nulla, ed è perciò che esso, in ultima analisi, è tanto utile proprio al Sistema stesso!
Infine un’ultima considerazione. I voucher servono (e lo sanno tutti), a famiglie e piccole imprese, o per lavori particolari. L’Ape apre a prospettive in parte inedite per i singoli e le famiglie. Entrambi i temi hanno in comune il fatto che sempre più le richieste che vengono dalla gente sono personalizzate, quasi individuali. Segno che sempre meno servono gli strumenti tradizionali e sempre più vanno pensate soluzioni nuove.
Certo che, vien da pensare al termine di queste righe, chi avrebbe mai immaginato di affidare il riformismo nelle mani di un democristiano?