I primi provvedimenti previsti dal Jobs Act sono stati approvati dal governo in via definitiva. Centrale in questi primi atti è l’introduzione del contratto a tutele crescenti, che permette di porre come basilare per i rapporti di lavoro il contratto a tempo indeterminato. Il superamento dell’articolo 18 legato a questa nuova forma contrattuale permette di avere corsie certe in termini di tempo e di costi per i contenziosi più diffusi, mantenendo le garanzie legate ai diritti individuali fondamentali.
Per quanto riguarda la polemica sull’estensione ai licenziamenti collettivi, mi pare il tentativo dei conservatori dello status quo di cercare l’ultima trincea. Nei casi collettivi si è trattato di scegliere se applicare a tutti le norme del futuro o quelle del passato. Mi pare sensato aver scelto il futuro, anche perché, nei casi in questione, il percorso è sempre frutto di una trattativa sindacale e la modulazione è un risultato che tiene conto delle specifiche situazioni aziendali.
Avevamo segnalato nelle settimane passate che c’era il rischio di fare del contratto a tutele crescenti un nuovo modello ideologico a cui sacrificare tutti i rimanenti contratti. Nel decreto finale è prevalsa la posizione di chi ha voluto mantenere quelle forme di flessibilità necessarie a specifici lavori e a sostenere settori produttivi che non hanno una pianificabile continuità di lavoro. Ciò è stato possibile perché, abrogando le parti più controverse della legge Fornero, si è meglio precisato il confine fra lavoro autonomo e lavoro subordinato.
Ciò ha permesso di riportare le partite Iva al ruolo di reale autonomia nei confronti del mercato abbandonando pregiudizi ideologici che le identificano con lavoro subalterno mascherato. Ma oltre al ridisegno positivo delle partite Iva sono stati mantenuti, con revisione dei punti controversi, anche i contratti a termine (portati a 36 mesi), le collaborazioni continuative per amministratori e per quei settori dove indicano chiaramente il ruolo subordinato ed è stato mantenuto il contratto di lavoro intermittente. Si è saputo quindi scegliere positivamente per la flessibilità positiva, escludendo quella che è fonte di precarietà. Anche l’aumento delle possibilità di ricorso al lavoro accessorio con il massimale a 7.000 euro va in questa direzione.
Importante è anche il ridisegno operato per l’apprendistato. Ciò sia per quanto riguarda le semplificazioni generali che per le regole poste a base del passaggio a tempo indeterminato con tutele crescenti. Ma è soprattutto per l’apprendistato di istruzione-lavoro che si fa un vero passo in avanti per introdurre anche nel nostro Paese quel sistema duale scuola-lavoro che ha dato risultati molto positivi in quei paesi europei che già l’avevano introdotto. Per l’Italia può essere realmente il decollo di un rapporto scuola-lavoro che permetterà alle tante buone iniziative di formazione-lavoro di diventare un tessuto fondamentale per le professioni manuali e artigiane. Sono inoltre state introdotte norme che permettono una maggiore flessibilità sui posti di lavoro di fronte a mutamenti organizzativi e tecnologici, con la possibilità di mansioni diverse a parità di salario, e si è introdotta anche per la Pubblica amministrazione la normativa del lavoro privato, superando così un anacronistico dualismo legislativo.
A supporto di queste prime decisioni dovremo avere i due passi successivi previsti dal Jobs Act. Il processo di semplificazione della normativa è indispensabile perché servono norme semplici, comprensibili e certe per archiviare un periodo in cui la legislazione del lavoro ha continuato a sommare interventi senza cancellarne, creando così una giungla interpretativa che ha contribuito a fare del mercato del lavoro italiano un mercato bloccato.
La terza gamba fondamentale sarà la struttura dei servizi al lavoro. Ci auguriamo da tempo che l’Agenzia nazionale per l’occupazione non diventi un nuovo carrozzone pensato e organizzato solo per sistemare i Centri per l’impiego. Occorre fare norme che permettano il più presto possibile che decolli una rete di servizi, pubblici e privati, che si prendano in carico chi si trova nella necessità di trovare una nuova occupazione.
Il sistema deve essere teso al risultato, l’introduzione già operata di un nuovo sostegno al reddito condizionato all’accettazione di percorsi di politiche attive per la ricollocazione deve trovare nelle agenzie pubbliche e private una rete di servizi che abbiano nella presa in carico delle persone e nella loro ricollocazione la valutazione per diventare una nuova best practice come l’esperienza lombarda indica già da tempo.
In conclusione, questi primi passi della riforma sono certamente positivi. Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da un dualismo profondo fra chi gode di tutele e chi non ne ha nessuna. Per rimettere in moto le persone, perché gli imprenditori tornino ad avere piena fiducia nei rapporti di lavoro, perché chi offre i propri talenti alle imprese si senta tutelato in una vita fatta sempre più di molte esperienze lavorative, occorreva rompere il dualismo che si era formato in questi anni.
L’Italia è ricca di talenti lavorativi capaci di affermarsi anche in questa fase di grande turbolenza economica. Le nostre imprese che operano nel mercato internazionale hanno segnato punti positivi anche in questi anni di crisi. La gran parte delle nostre imprese opera però per il mercato interno ed è per permettere anche a questi settori economici di tornare a crescere che occorre un mercato del lavoro che sostenga la mobilità, superi il dualismo delle tutele, dia un sostegno a chi si vuole impegnare in nuovi servizi e nuove attività.
Le parti conservatrici hanno fatto leva sulla paura del cambiamento per difendere le certezze preesistenti. Ma non c’è più il lavoro a vita, servono tutele che sostengano tutti nel cambiamento e nelle trasformazioni in corso. L’alternativa alla riforma del mercato del lavoro non è avere più diritti ma pochi tutelati e, soprattutto, poco lavoro per tutti.