Si è tenuta la scorsa settimana l’Assemblea di Confindustria e, nonostante gli organi di informazione abbiano dato ampio risalto all’evento, ha trovato enfasi la molto discutibile – come abbiamo già scritto – proposta per l’occupazione giovanile, mentre non ha raccolto la dovuta attenzione la richiesta che gli Industriali hanno posto all’esecutivo di detassare strutturalmente il salario di produttività. Detassazione strutturale significa superare gli attuali limiti previsti dalla legge di stabilità 2017 – redditi fino a 80.000 € e premi fino a 3.000 €, 4.000 € nel caso di aziende con coinvolgimento paritetico dei lavoratori – che, comunque, andava ad apportare migliorie alla manovra dell’anno precedente.
Naturalmente gli organi di informazione preferiscono dare risalto a un argomento, per quanto importante, come quello dei giovani pur in presenza di una proposta debole che a una questione le cui implicazioni non sono immediate, ma potenzialmente molto importanti. In un Paese dove non è mai esistita la politica industriale e dove la stessa politica economica è stata implementata un po’ sì e un po’ no, la detassazione strutturale dei premi di produttività acquista un peso decisivo perché non solo allarga lo spazio della partecipazione, ma favorisce le condizioni per la crescita delle retribuzioni; per dirla tutta, del salario aziendale. Sì, perché è chiaro che con lo sviluppo della contrattazione di secondo livello, il salario sarà sempre più legato alla produttività del lavoro e al buon andamento delle imprese. Non è un caso che da gennaio 2016, il numero dei contratti aziendali – come ci dicono i dati del ministero del Lavoro – sia cresciuto sensibilmente. Questa è la strada maestra, che può permettere a quelle imprese che hanno chiaro il loro orizzonte di avere strumenti importanti con cui muoversi; chiaro che, invece, non esiste vento a favore per il marinaio che non sa dove andare.
Naturalmente si tratta di opportunità non solo per la grande impresa, ma anche per chi non è così abituato alla premialità, vedi le aziende più piccole. È questa una chiara occasione per loro, per far sì che le direzioni aziendali possano stimolare le loro risorse verso progetti di crescita della produttività del lavoro. Se, poi, cresce ricchezza, la si distribuisce; anche in virtù di come territorialmente le Parti sociali si stanno organizzando, per esempio con comitati bilaterali che esprimeranno un parere consultivo che potrà aiutare le imprese nel comprendere la conformità del proprio piano a quanto previsto dal legislatore per l’ottenimento degli sgravi.
La cosa interessante è, senza dubbio, la possibilità di crescere partecipazione nelle imprese e di mettere queste nella condizione di avere sempre più obiettivi di sviluppo da traguardare, cosa che può avere ripercussioni sul Pil, sui consumi e sull’occupazione. Consideriamo che nel periodo 1995-2015, la produttività del lavoro è aumentata a un tasso medio annuo dello 0,3%, valore molto al di sotto della media Ue del +1,6% (fonte Istat). Da qui l’interesse del legislatore con queste misure che, fatto nuovo, vanno in una direzione sempre più incentivante e sulle quali la più importante Associazione d’impresa non molla.
Si sta tuttavia diffondendo una tendenza delle imprese a puntare, in termini di premialità, non sul salario, ma i servizi di welfare – in virtù della sostituibilità del premio di produttività in welfare, così totalmente detassabile – anche stimolate da moltissime società di servizi che si propongono per la gestione del welfare aziendale. C’è però un equivoco di fondo: non è il welfare di per sè che rende più competitiva l’impresa, semmai questo ne risulta una leva; ciò che invece incide sulla competitività è unicamente la capacità di ottimizzare la produttività che passa da migliorie apportate all’organizzazione del lavoro: l’impresa è, infatti, un sistema organizzato.
Gli incentivi che il legislatore ha previsto ci sono nella misura in cui si interviene per crescere produttività del lavoro, sia in caso di contratto aziendale che di piano per la produttività, anche senza le loro rappresentanze (è sufficiente un regolamento interno). Ciò che è importante è che nei luoghi di lavoro ci si sforzi di migliorare la produttività e di rendere le imprese più produttive; ma questo non avviene se soltanto cresce benessere (welfare) in azienda. C’è il rischio che ci ritroviamo con imprese che crescono welfare, ma non la produttività del lavoro. Il legislatore, che incentiva in misura maggiore il welfare rispetto al salario, farebbe bene a tenere monitorato questo aspetto. E anche le Parti sociali, in particolare quelle datoriali, farebbero bene a non trascurare questo equivoco.
Twitter: @sabella_thinkin