C’è un passaggio molto bello in un pregevole film che tratta di finanza, vino e amore, ambientato tra Francia e Gran Bretagna. Il film, diretto da Ridley Scott, ripropone con Russell Crowe la coppia vincente de Il Gladiatore. Questo passaggio, di una decina minuti, è sintetizzato da un aforisma: “Qual è il segreto della comicità? Semplice! Sono i tempi!”.
E’ quello che è successo in Senato quando, con il question time (…i tempi!), Salvini ha tenuto la scena da jolly sostituendo Conte, Tria, Di Maio e ricevendo scrosci di applausi e standing ovation. Cosa ci fosse di comico? Errore nei tempi e nei modi di risposta alle parole della Francia, che hanno prodotto il paradossale risultato di saldare sotto l’afflato patriottico (che non è sovranista, né nazionalista) coloro che si sono ritrovati a difendere Salvini per difendere l’Italia. Comico no?
Luigi Di Maio si è sostanzialmente defilato, lasciando la trattazione non solo del caso Aquarius, ma anche dell’agenda economica a Salvini, quasi a evitare così un problema che conosce molto bene, quello che affligge Roma Capitale: le buche.
Serviranno le misure programmate nel contratto, scritte, e le esternazioni, orali, a rendere l’agenda economica a tiro di staffetta con tasse e imposte, pagamenti e Iva in mano al ministro dell’Interno che si sta sovrastrutturando non solo nei confronti del presidente del Consiglio, ma anche del titolare del Mef, e pensioni, lavoro e sviluppo economico in mano al titolare giusto, con la giusta concentrazione per un vicepremier, a non diventare un percorso contrassegnato da… buche?
E’ abbastanza comico registrare come gli staff (Casaleggio & C. compresa) abbiano rincorso le problematiche in modo “random” invece di affrontarle con analisi serie e soluzioni motivate e affidabili grazie anche alla proiezione di probabili risultati di compatibilità con i constraint, finendo per scopiazzare senza ottenere un clone effettivamente valido già dall’impostazione. Anche qui, per analogia, ci si trova di fronte all’esperienza romana.
Le buche si coprono con una gettata di catrame circoscritta per tamponare, e quindi nient’affatto risolutiva. Questo lo abbiamo visto con le aree reddito, pensioni, assistenza, che fanno parte del nostro programma di proposte. Proposte peraltro avanzate già negli ultimi tre anni anche su queste pagine.
Partiamo dal problema pensioni, trattato già dal 2012, con Riformare la Riforma, quando ancora ci si doveva accorgere cosa sarebbe successo. Riformare la Riforma delinea soluzioni ad hoc salvaguardando l’impatto di stabilizzazione della legge Fornero, trattando nel contempo la flessibilità, l’anticipazione d’uscita e il trattamento delle crisi aziendali e degli esodati (che diverrà elemento forte della cosiddetta isopensione, introdotta però con il Jobs Act) e considerando altresì il meccanismo biunivoco tra età e contribuzione.
Con che cosa se ne esce fuori il team vincente alle elezioni dopo una campagna incentrata negli ultimi due anni su eliminare/cancellare/superare la legge, scrivendolo sul Programma del contratto? Quota 100 e 41 anni di contribuzione senza età anagrafica. Una trovata ingegnosa, che per centrare lo stanziamento di 5 miliardi richiede a Brambilla, consulente di Salvini, di fissare una soglia di uscita a 63 anni e di effettuare il ricalcolo contributivo dell’assegno a partire dal 1996, anno della riforma Dini. Non sfugga che una posizione di questo tipo – inaugurata da Boeri, riscontrata non fattibile, quando addirittura anticostituzionale – altro non è che una redistribuzione del costo del superamento della Fornero su tutti per rassicurare della bontà della scelta coloro che hanno votato Lega e Cinque stelle. Risultati a venire, seguendo il percorso Salvini/Brambilla? Meno reddito per i pensionati, perché il ricalcolo deve essere generalizzato, e non appuntato solo in capo a classi di reddito di pensionati (stavolta idea brillante di Di Maio) perché sarebbe incostituzionale.
Al di là di ciò, se andiamo allo step finale, troveremo che le attuali forze al governo vogliono, nei loro propositi di riforma, inaugurare l’era del cambiamento, che per buona parte della popolazione anziana (Italia secondo Paese del mondo per numero di anziani) diviene l’inizio di un’era d’impoverimento perché, invece di pensare ai giochini di quota 100, certo di sicura presa a livello elettorale, sarebbe meglio mettere a riforma il meccanismo di adeguamento dei coefficienti di trasformazione per il montante insieme a quello dell’incremento delle aspettative. Esiste, qui, un gioco perverso, per cui il pagamento maggiore dovuto a una vita lavorativa più lunga orientata all’uscita per vecchiaia diventa un fattore di penalizzazione con una diminuzione di reddito a partire da 250 euro fino a 390 euro per ogni anno in più. Nel paradosso di una legge, dove chi esce più tardi guadagna l’aumento del tasso di copertura, ma vede ridursi l’importo, ci sarebbero ben altre cose da affrontare.
Passiamo al “reddito di cittadinanza”. Il primo reddito di cittadinanza era, e resta, una misura assistenziale, così come l’Ape social in ambito previdenziale. Anche qui, è una massa gelatinosa vorace, che avanzando ingloba tutto per metabolizzarlo, al fine di trovare la quadra con un concetto estraneo ai Cinque stelle, ma non alla Lega, almeno da quanto si desume. Non bisogna assicurare reddito, bisogna crearlo. Per crearlo bisogna creare lavoro, oltre che salvaguardarlo. Poiché salvaguardarlo, quando nella divisione internazionale del lavoro si chiudono tutte le prospettive di attrattività, perché in anticipo già cessano quelle di produttività e le aziende allora delocalizzano, si passa o si resta nell’assistenzialismo.
Vi ricordate, dopo le elezioni, quando le persone si presentarono ai gazebi dei vincitori per riscuotere la somma del reddito predetto? Se non è assistenza questa…
E veniamo al principio di separazione tra previdenza e assistenza: principio che è piaciuto ai sindacati, ma per vari motivi non piace o viene ritenuto inutile da Ocse, Inps e Cpi. Mentre i nostri amici competitor utilizzano la separazione per il ricalcolo delle sole graduatorie e per trovare spazi di azione da rivendicare pubblicamente nelle sedi internazionali, noi abbiamo sempre ritenuto la separazione come un processo politico affiancato al processo di contabilità pubblica (la vecchia contabilità di Stato) per conoscere quanto, per cosa e come viene speso nelle diverse forme, per capire se esistono cluster di riferimento, per capire cosa e quanto è in finanziamento contributi e quanto in fiscalizzazione e per ragionare su come predisporre un nuovo tableau d’intervento per politiche mirate. Per le graduatorie ci sarà tempo.
Per dirla con Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza della politica, a proposito di un twitter sulla solitudine degli ultimi e dei penultimi, e sulla fatica e il peso da sopportare per rappresentarli, non ci stanchiamo di affermare che è qui il territorio povero e al contempo nobile da dove nasce la politica, come servizio. E non come scorciatoia per il potere, visto che – per parafrasare in chiusura il titolo di un altro film – potrebbe diventare una “scorciatoia per il patibolo”. E qui di comicità ce n’è veramente poca.