Essendo lontano dall’Italia, mi alimento delle notizie on line. Non sono convinto di far bene, visto che qui in California si respira tutto un altro clima. Ottimismo sarebbe una parola eccessiva, ma certamente c’è l’idea che il peggio sia passato. Basti pensare che i californiani a novembre hanno votato a favore della Proposition 30 che consentirà di aumentare le tasse dirette (l’equivalente della nostra Iva) e le aliquote dei redditi più alti per rifinanziare il sistema scolastico e universitario. In Italia, invece, percepisco una spirale regressiva in tutto, nella vita politica, in quella economica e nella civiltà, con un’ondata di delegittimazione per tutto ciò che non è genuinamente ignorante (purtuttavia ignorante), rafforzata dalla prova incerta del cosiddetto “governo dei professori”.
Dicevo che non sono sicuro di fare bene a leggere, perché mi capita di soffermarmi molto sui commenti agli articoli che danno il senso della pancia di quella parte del Paese che potrebbe avviarsi a essere maggioritaria a febbraio. Vi sono dei veri capolavori dell’assurdo, che brandiscono a casaccio le teorie più improbabili con la stessa certezza con cui alcuni si sono precipitati nei bunker la notte del 20 dicembre per la profezia dei Maya. E, cosa che mi spaventa di più, quando leggo ad esempio i commenti sulla scelta di Pietro Ichino di non candidarsi alle primarie, percepisco la rabbia incosciente contro chi la pensa diversamente, la stessa rabbia più violenta contro chi è vicino a te che fu propria della violenza brigatista. Non si sentono le pistole, per fortuna, ma la notte della ragione inizia con lo stesso tramonto di allora.
Torniamo a noi, però. L’Italia, vista da qui, è divenuta un Paese in cui tutto è come il calcio, se ne può parlare a sproposito e nessuno è legittimato a essere un vero esperto. Per questa ragione sono un po’ in dubbio a discorrere apertis verbis di cosa penso accadrà nel mondo del lavoro nel 2013, ma intendo provarci.
Il 2012 ci ha dato una certezza. L’Italia è un Paese che non si riesce a riformare se non si ha il coraggio e la forza che ebbe Carlo Azeglio Ciampi o l’improntitudine di Bettino Craxi che riformista fu davvero (glielo dovevo a tanti anni di distanza, ricordando quanto allora lo detestassi). La compagine governativa, con evidenti lacune derivanti dalle incessanti mediazioni politiche e lobbystiche che l’hanno contraddistinta (vero vizio originario), aveva tuttavia gli strumenti, la forza e l’occasione per cambiare qualcosa nel mercato del lavoro.
Il Ministro Fornero ha anche ascoltato a lungo gli autori delle numerose proposte di cui si è discusso negli ultimi anni. Alla fine, però, all’idea di un grande disegno di riforma del mercato del lavoro (e della rappresentanza sindacale che poteva essere l’elemento di scambio con la Cgil), si è contrapposta la ragione di un sistema conservatore di parte sindacale e datoriale che hanno aiutato a partorire un topolino che non avrà alcun significativo impatto sul mercato del lavoro.
Il 2013 ci vede quindi solo con uno spread migliore, senza uno straccio di riforma e con l’ennesimo taglio del finanziamento all’università e alla ricerca. Non c’è che dire, molto lontano dalle mirabilie de “L’anno che verrà” di Lucio Dalla! I nodi del mercato del lavoro sono sempre gli stessi. Esiste una rigidità in uscita che protegge il posto di lavoro (e non il lavoratore, si badi bene), alla quale corrisponde una difficoltà di ingresso. Entrambe dipendono dall’assenza di dinamismo dell’economia italiana, dalla scarsa mobilità (professionale e territoriale) e dalla mancanza di una cultura della formazione permanente e continua. Dipendono anche da una profonda carenza di capacità di rischio imprenditoriale di lungo periodo, essendo a mio avviso l’Italia un Paese di innovatori, ma non di imprenditori.
Sono carenze strutturali alle quali non si può porre rimedio solo con una legge sul mercato del lavoro. A mio avviso, ciò che raramente si ricorda, però, è che sono anche l’eredità di un sistema costruito non attorno al valore della persona, ma attorno a un’idea astratta di lavoratore, o meglio di posto di lavoro che ha radici profonde in un certo modello valoriale della sinistra italiana. Questa “anonimizzazione” del lavoratore purtroppo ha trovato una saldatura con un sistema imprenditoriale che non ama il rischio ed è abituato a brandire la minaccia della riduzione dei posti di lavoro per farsi schermare dalle forze del mercato e della competizione. Non è un caso se la stessa uniformizzazione è propria del modo con cui si pensa l’educazione.
È un’eredità storica difficile da scrollarsi di dosso, radicata in una trasposizione del significato di uguaglianza, contraddistinto più dall’uniformità che dal riconoscimento dell’unicità. Lo scontro violento con le dinamiche della competizione produce l’impossibilità di governare lo sviluppo e il mercato del lavoro dentro questo paradigma e il 2013 ci farà pagare il prezzo più alto con un ulteriore peggioramento. Sono le energie e le potenzialità di ogni singola persona che devono potersi attivare liberamente per costruire e arricchire il proprio lavoro, utilizzando un sistema fluido e aperto che sostenga nei momenti di uscita, ma in prospettiva di un rientro. E invece, la ricetta sembra sempre quella della protezione del posto di lavoro che talvolta ingabbia il lavoratore in un sentiero sicuro di obsolescenza, magari ritardata, ma inevitabile.
Servirebbe un progetto di riforma istituzionale molto profondo che coinvolgesse l’articolazione del sistema scolastico, dell’università e della formazione e un patto per lo sviluppo che per una volta non sia condizionato dalle esigenze di bottega reciproche dei datoriali e delle diverse sigle sindacali. Servirebbe una nuova classe manageriale che sappia accettare le scommesse di una forza lavoro che si rimette in gioco. Servirebbe un Paese che non si crogiola nel vittimismo cercando colpevoli a destra e a manca. Servirebbe una sintesi realmente riformista che il nostro Paese non ha mai conosciuto come fenomeno popolare, ma sempre come espressione di élites poco radicate.
Li avremo nel 2013? Ho molti dubbi a giudicare dal tono e dall’ambiguità con cui Bersani, il candidato in pectore a Premier affronta le contraddizioni interne del suo partito. La pacatezza e la serietà sono certo pregi, rispetto agli eccessi del passato, ma non garantiscono le soluzioni. Le mirabolanti invenzioni di Fassina e le fumose esternazioni di Vendola (per non parlare di Ingroia e De Magistris che mi confermano l’idea che essere magistrato equivalga a possedere un ego smisurato) garantiscono la confusione.
Sarò diventato un po’ manicheo, ma sono convinto che o si sta dentro l’economia di mercato e allora si flessibilizza il mercato del lavoro o si esce dall’economia di mercato. La presunta terza via vendoliana rientra nella categoria degli orpelli da ciarlatani*, simpatici e alla mano, ma sempre ciarlatani.
* Ciarlatano: Venditore sulle piazze di merci varie; Venditore di prodotti di pessima qualità; Giocoliere, saltimbanco.