Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia a novembre ha raggiunto il 37,1%, cioè il livello più elevato dal 1992. Il dato Istat, che riguarda la fascia tra i 15 e i 24 anni, è in aumento dello 0,7% rispetto all’ottobre scorso e del 5% rispetto al novembre 2011. Ma soprattutto, è ben al di sopra della media europea per la stessa fascia d’età, che è pari al 24,4%. In tutto in Italia si contano 2 milioni e 870mila disoccupati, con una diminuzione di 2mila unità rispetto a ottobre. Per Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro all’Università Bocconi, “ormai i dati italiani si stanno staccando in maniera piuttosto vistosa rispetto alla media europea, con la sola eccezione di Spagna e Grecia. Siamo decisamente messi peggio, e questo è il risultato di una serie di fattori il primo dei quali è una difficoltà di crescita della nostra economia”.
Professor Del Conte, che cosa si può fare per dare una risposta a questa situazione?
Quello che si può fare è introdurre ogni possibile misura legata alla crescita e volta ad alleggerire il costo fiscale e previdenziale soprattutto per i giovani. Non si può pensare di coniugare la crescita con il nostro attuale carico fiscale, in una situazione di depressione economica grave come quella attuale. Bisogna fare una scelta, scoprirsi sotto il profilo della spesa pubblica e aumentare anche il debito pubblico, pur di finanziare la crescita dell’occupazione, oppure essere assolutamente intransigenti con il debito pubblico ma rinunciare alla crescita. Questa seconda scelta è molto pericolosa.
Ma mettere i conti in ordine non è il modo migliore per prepararsi alla ripresa?
Quello che stiamo facendo in questa fase è attendere la ripresa globale, soprattutto a livello europeo. Si pensa che la ripresa della crescita economica europea possa da sola risolvere i problemi dell’occupazione, ma purtroppo non è così. La crescita all’uscita dalla crisi, che speriamo avverrà il più presto possibile, favorirà soprattutto quei mercati in cui il lavoro sarà più dinamico e costerà di meno. L’Italia purtroppo non è in questa categoria, è tra i Paesi nei quali il lavoro costa di più e soprattutto tra quelli in cui i giovani sono più disoccupati che in altri Paesi.
Per quale motivo la disoccupazione giovanile è così preoccupante?
Il problema della disoccupazione giovanile è che si perde la quota più produttiva ed efficiente del mercato del lavoro. Paradossalmente staranno meglio quei Paesi che hanno anziani disoccupati, che non quelli con molti giovani senza lavoro. L’Italia si troverà in una situazione veramente difficile, perché non riusciremo ad agganciare la ripresa nei tempi in cui lo faranno i Paesi più virtuosi. Se non si mette mano al portafoglio della spesa pubblica per ridurre il cuneo fiscale dei giovani, ci sarà ben poco da fare.
Com’è invece la situazione nella fascia d’età dei giovani laureati?
Se andiamo a guardare i dati tra i 24 e i 35 anni, la situazione è ancora peggiore. La vera drammaticità della situazione italiana è che non c’è soluzione di continuità nel bassissimo tasso di occupazione tra i 15 e i 35 anni. Noi potremmo sopportare meglio un dato di disoccupazione così alto nella fascia tra i 15 e i 24 anni, se fosse migliore il dato tra i 24 e i 35 anni. L’Italia è inoltre uno dei Paesi dove il tasso dei giovani che si iscrivono all’università e poi si laureano è tra i più bassi rispetto ai Paesi più virtuosi dell’Unione Europea. Anche sotto questo profilo, il dato sulla disoccupazione va letto negativamente in quanto non abbiamo una così forte propensione all’iscrizione e al completamento degli studi universitari.
L’Italia quindi deve rimboccarsi le maniche e lavorare di più?
Prolungare gli orari di lavoro è una risposta necessitata, ma non adeguata. Va infatti innanzitutto nel senso dell’occupazione dei posti disponibili attraverso le persone già assunte. Aumentare l’orario di lavoro non fa cioè che ridurre le possibilità occupazionali per i giovani. C’è inoltre un’incentivazione all’illegalità, cioè a sfuggire alle regole previste dalla contrattazione collettiva sul costo maggiore in termini non solo retributivi, ma anche contributivi del lavoro straordinario. Come sempre avviene del resto, caricando troppo la tassazione sul lavoro, le imprese e il sistema trovano delle soluzioni emergenziali a livello micro, ma quanto mai infauste per il livello macro. La nostra economia ne risente sotto il profilo della competitività, dell’occupazione e della raccolta fiscale e contributiva.
(Pietro Vernizzi)