A inizio settimana abbiamo avuto lanci di agenzia con in rilievo l’ennesimo effetto negativo prodotto dal Jobs act. La notizia, fortunatamente per ora ripresa da pochi giornali, è di quelle ghiotte. Gli italiani a rischio di povertà non accennano a diminuire, anzi crescono, e sono arrivati a essere 9,3 milioni.
Come sempre quando vi sono dati relativi a nuovi disastri sociali i toni sono enfatici. Si ammette, perché è ormai difficile sostenere il contrario, che la disoccupazione sta scendendo e che anche nell’ultimo trimestre registriamo il proseguimento del trend positivo del numero di occupati. Ma, ovviamente per colpa del Jobs act, la nuova occupazione viene da una vera e propria “fabbrica” di lavori precari. Da qui la valutazione di chi, pur lavorando, resta sotto la soglia di reddito minimo e quindi cresce la fascia di occupati-precari (+197mila nell’ultimo anno) con conseguente aumento della fascia a rischio di povertà.
I dati emergono da uno studio di Unimpresa, associazione di piccole e medie imprese. Vediamo di analizzare i dati e cercare di capire perché il numero appare fin troppo vistoso.
Tenendo conto che in Italia vi sono poco più di 20 milioni di lavoratori dipendenti, avremmo un 45% di lavoratori a rischio povertà. Se dovessimo togliere i dipendenti della pubblica amministrazione (dove pure le sacche di lavoro precario sono molto numerose) avremmo addirittura che oltre il 50% dei lavoratori ha un reddito che non copre i bisogni primari, quindi una situazione addirittura anticostituzionale.
Entrando nel merito, però, dai 9 milioni dei titoli di lancio vanno tolti 3 milioni di disoccupati. Per loro, che pure stanno diminuendo, possiamo certo ritenere che nonostante la Naspi e gli altri ammortizzatori sociali, il rischio povertà, e comunque la fatica di vivere, sia un rischio acclarato. I rimanenti 6 milioni sono calcolati sommando i contratti a tempo determinato (2 milioni a tempo pieno e 900 mila part-time), i lavoratori autonomi part-time (+22mila), collaboratori (251mila) e i contratti a tempo indeterminato part-time (2,68 milioni). Il totale porta a 6,55 milioni di persone che, sommate ai circa 3 milioni di disoccupati, danno appunto 9,29 milioni di lavoratori a rischio con un +1,4% rispetto all’anno precedente.
Risulta oltremodo difficile considerare la somma di queste categorie di occupati come lavoratori a rischio povertà. Prendiamo in considerazione i part-time. Per quanto pesi il part-time involontario la maggioranza degli occupati a tempo parziale ha scelto, per motivi famigliari o di più impieghi, tale contratto. Dedurre che il reddito parziale sia l’unico reddito e pertanto un reddito scarso è un salto logico non supportato dai dati esposti. Si tenga peraltro conto che il part-time, contratto in larga maggioranza usato dalle lavoratrici, è in Italia ancora molto poco diffuso rispetto a quanto avviene negli altri Paesi europei nostri competitor. Tant’è vero che molti sostengono sia dovuto anche allo scarso utilizzo di questo tipo di contratto il bassissimo tasso di occupazione femminile registrato in Italia.
Per quanto riguarda gli occupati con contratto a tempo determinato, oltre a non indicarci per nulla il livello di reddito, andrebbero conteggiati solo per la quota percentuale di contratti che non saranno confermati alla scadenza e ciò porterebbe il dato a essere diviso almeno per quattro. E comunque nulla ci dice sui redditi né sul perché le imprese preferiscano ancora il termine contrattuale prima di procedere e confermare il tempo indeterminato.
Resta il milione circa di lavoratori autonomi part-time e collaboratori. Essendo dati presentati da un’associazione di imprenditori, mi auguro che il dato dei collaboratori sia stato depurato dal numero di consiglieri di amministrazione e amministratori delegati che rappresentano il maggior numero di lavoratori iscritti con questa forma contrattuale a fini previdenziali. È una categoria di lavoratori che difficilmente collocherei nella fascia a rischio povertà, anche se sono lavoratori a termine e senza tutele. Ma autonomi part-time e collaboratori coprono molti dei ruoli di chi affianca un imprenditore di micro-imprese e sono spesso legati alle sorti dell’impresa, mentre la forma contrattuale è solo la più conveniente nelle fasi d’avvio di nuove iniziative. Come ho cercato di illustrare fra il roboante titolo, 9 milioni di lavoratori a rischio povertà, e la realtà dei dati che sono stati forniti siamo portati a ritenere che si tratti più di una fake news che non il risultato di una seria analisi della povertà in Italia.
Anche le dichiarazioni del presidente di Unimpresa a commento dei dati, la richiesta di interventi governativi per la diminuzione del costo del lavoro e contro provvedimenti assistenzialistici come il salario di cittadinanza, non risponderebbero al problema posto da un 50% di lavoratori a rischio povertà.
La colpa viene però data al dilagare di contratti atipici e non stabili introdotti con il Jobs act – e che ciò sia affermato da imprenditori appare perfino stupefacente. Certo il Jobs act non vieta alle imprese di utilizzare contratti a tempo indeterminato. Speriamo che questo sia il comportamento degli associati a Unimpresa.
Se pure sono già stati introdotti limiti alla reiterazione di contratti a tempo determinato, stupisce che un’associazione di imprese non si sia accorta che molti dei cambiamenti in atto non nascono dalle leggi del lavoro, ma che rispondono a cambiamenti tecnologici e organizzativi in atto nei diversi settori produttivi della nostra economia.
Se vogliamo vedere la causa prima della “precarietà”, si deve valutare come mai la vita media delle imprese iscritte alla Camera di commercio di Milano scende ormai da anni. Il passaggio da un’occupazione per tutta la vita a una vita di lavori, caratteristica della fase attuale, non viene dalla legislazione del lavoro né da scelte dei lavoratori.
La legislazione serve, e deve migliorare, per adeguare diritti e tutele del lavoro, così come viene mutando per i cambiamenti in atto nelle imprese.
Va però ricordato, e l’indagine non lo fa, che la distribuzione del reddito penalizza da anni i redditi da lavoro dipendente. La risposta non può che essere più investimenti, aumento della produttività e tagli agli oneri sul lavoro. Misure che possono contrastare il rischio povertà, valorizzando il lavoro dipendente nelle diverse forme contrattuali.
Usare fake news per creare falsi allarmi su temi caldi e di grande importanza indica che nel nostro Paese non vi è ancora una comune constituency economica capace di rispondere alle sfide che il cambiamento industriale pone a tutta la società.