Il futuro dell’economia globale è in mano alle donne, tranne che in Italia. Più o meno in questi termini, circa un mese fa, si è espressa l’Ocse in occasione della presentazione del rapporto “Closing the gender gap”. Secondo i dati contenuti nel rapporto, che denuncia il divario tra uomini e donne nei 34 paesi aderenti all’organizzazione, l’economia italiana – ma questa non è una novità… – è penalizzata dalla scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro. Il nostro Paese, infatti, si colloca al 32mo posto nella classifica delle presenze; peggio di noi solo Turchia e Messico. I numeri in questione sono sostanzialmente ribaditi dalle rilevazioni trimestrali diffuse questa settimana, che evidenziano “larghe disparità” a livello di genere nell’evoluzione del tasso di occupazione: la percentuale di occupati è nettamente più alta tra gli uomini che tra le donne (73,1% contro 57,1%), ma dal 2008 a oggi il calo è stato più marcato per i primi (2,6%) che per le seconde (0,5%). Questa differenza è legata in parte, secondo l’organizzazione, all’aumento della disoccupazione maschile, ma anche a trend divergenti sulla partecipazione al mondo del lavoro, diminuita per gli uomini (-0,7%) e aumentata per le donne (+0,9%).
Su questo e altro ilsussidiario.net ha parlato con Alessandra Servidori, Consigliera Nazionale di Parità, anche in virtù della sua presenza Istituzionale ieri a Modena per il convegno “I recenti interventi normativi a sostegno di occupazione, crescita e competitività del mercato del lavoro. Una lettura di genere”, organizzato dalla Fondazione Marco Biagi – Università di Modena e Reggio Emilia. Guardando in casa nostra – ci dice l’intervistata – «il problema italiano è nei differenziali occupazionali femminili, ma, soprattutto, nell’ampia fascia di lavoro sommerso, irregolare e clandestino di moltissime donne che contribuisce a creare condizioni di esclusione sociale e di sottoutilizzo di capitale umano femminile».
In quest’ottica che passi in avanti ha compiuto la recente riforma del mercato del lavoro?
La riforma Fornero ha messo mano a un mercato del lavoro flessibile per migliorare la qualità, oltre che la quantità dei posti di lavoro, rendere più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle imprese e delle lavoratrici, consentire alle singole persone di cogliere le opportunità lavorative più proficue, evitando che rimangano intrappolate in situazioni a rischio di forte esclusione sociale. Ciò induce a sperimentate nuove forme di regolazione, di conciliazione del tempo di vita e di lavoro, rendendo possibili assetti regolatori effettivamente vicini agli interessi sia delle lavoratrici che alle specifiche aspettative in loro riposte dal datore di lavoro, nel contesto di un adeguato controllo sociale. La riscrittura di un quadro omogeneo di regole per gli incentivi all’occupazione (vedi art. 4 co. 12-15) e la riconduzione a due modalità di assunzione incentivata per il personale femminile sono senz’altro da accogliere con grande positività (art. 4 co. 11). La L. 92/2012 ha infatti messo ordine in un sistema complesso – fatto di una stratificazione convulsa di provvedimenti, il ritardo cronico nella pubblicazione dei decreti necessari per l’individuazione delle zone ad alto tasso di disoccupazione femminile – che nel tempo aveva portato a uno scarso utilizzo dei meccanismi individuati per il rilancio dell’occupazione femminile (vedi contratto di inserimento, poi abrogato dalla L. 92/2012). Adesso il minimo comun denominatore è la semplicità e l’immediata applicabilità dei provvedimenti.
In che modo il legislatore potrebbe intervenire per favorire ulteriormente l’occupazione femminile?
La direzione presa è verso una maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro e con minori distonie (vedi discriminazioni), che però abbia un occhio di riguardo alla componente fondamentale della donna e dell’uomo, che è la famiglia. Nella stessa direzione – seppur con una visione più generale non legata specificamente al genere – l’accordo siglato con le Parti sociali in data 21 novembre 2012 (il cosiddetto Accordo sulla produttività), che segna la linea di indirizzo delle politiche attive per il lavoro per un mercato del lavoro inclusivo e competitivo. Di questo accordo, la riforma Fornero ha anticipato una misura tra quelle richieste, ovvero la fine della sperimentazione della detassazione dei cosiddetti premi di risultato (la legge di stabilità L. 228/2012 al co. 481 ha stanziato 950 milioni per l’anno 2013, cui dovrebbero essere aggiunti i 263 milioni già previsti dalla legge n. 83/2011) e il consolidamento di questa misura come strumento ordinario di miglioramento della produttività aziendale e di incentivo per i lavoratori (vedi art. 4 co. 28-29 L.92/2012). Ecco bisognerebbe incentivare la conciliazione lavoro-famiglia agganciata alla detassazione sulla produttività.
L’irrigidimento delle forme di flessibilità in entrata è sembrato favorire il lavoro somministrato. Che ruolo può avere quest’ultimo nella crescita e nella stabilizzazione dell’occupazione?
I problemi nella somministrazione più evidente sono altri: per esempio, la funzione di accertamento dello stato di disoccupazione, della ritrosia finora mostrata dalle Regioni verso l’integrazione di operatori non istituzionali, pubblici o privati, nel sistema pubblico dei servizi per l’impiego. Taluni criteri adottati risultano estranei ai profili economici/qualitativi di efficienza del servizio; piuttosto essi esprimono valutazioni e opzioni di tipo politico in ordine al ruolo degli operatori accreditati e al loro rapporto nel sistema e con l’operatore pubblico e si tratta di valutazioni restrittive e negative. Bisognerebbe invece valorizzare il principio della libertà di scelta su cui la norma statuale incardina il sistema di accreditamento e quindi anche di regimi di contratti flessibili dando consistenza alla direttiva sulla maggiore competitività nel segmento pubblico dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, posta dalla legge delega. Poiché il lavoro somministrato, se liberato dall’ingessatura attuale, può rappresentare un fortissimo volano di crescita!
Mario Monti, meno di un anno fa, parlando di giovani ha detto “che noia il posto fisso” e subito si è scatenata la polemica. Non è ora che la politica e le istituzioni stesse inizino in modo coeso a provocare un cambio di mentalità soprattutto tra le nuove generazioni?
Io sia ben chiaro appoggio il concetto di flessibilità, ma c’è qualcosa nei giovani di sbagliato nella concezione, poiché viene sempre confusa con la precarietà, mentre è doveroso equilibrare il concetto di precarietà: non si può prendersela solo con il contesto, ma forse anche con una mancata capacità di farsi strada che si sta sempre più insinuando nei giovani. Non bisogna vedere la precarietà come un destino immodificabile ed è sbagliato prendere a modello la condizione dei padri. Iniziamo a pensare che anche in Italia ci sono state generazioni di giovani in passato che stavano peggio dell’attuale. A quei tempi c’era la guerra o la fame e per uscirne si prendeva una valigia di cartone e si emigrava in cerca di fortuna. E a proposito di donne e lavoro, le donne di una certa età rimanevano a casa e facevano i lavori dei maschi, giovani e adulti.
In questo senso si è espresso anche il Ministro Fornero…
Concordo con l’affermazione del Ministro Fornero quando suggerisce ai giovani di entrare al più presto nel mondo del lavoro, anche se non con l’occupazione dei sogni. I giovani sbagliano a difendere le loro catene, a usare la generazione degli anni Settanta come modello. Dovrebbero avere menti più flessibili, in realtà non le hanno. Per fortuna non sono tutti così, c’è anche chi si lancia in progetti di start-up, chi si impegna e si inventa. E chi sa cogliere le innumerevoli opportunità che gli anni 2000 regalano loro. Non c’è solo offerta di risorse, ma anche domanda: esiste tutta una serie di lavori manuali che nessuno vuole più fare, ma che sono remunerativi e meravigliosi. I più svegli lo capiscono. Conosco storie di giovani che si sono impegnati e ce l’hanno fatta.
Quanto il sistema intero è stato in grado di recepire gli sforzi del legislatore di questi 15 anni in materia lavoristica?
La riforma del mercato del lavoro, pur muovendosi su di un terreno delicatissimo, anche in conseguenza degli effetti della crisi economica, ha promosso un migliore equilibrio tra le regole dell’assunzione e quelle della risoluzione del rapporto di lavoro, correggendo gli abusi nell’adozione dei cosiddetti rapporti flessibili e rendendo meno rigida la disciplina del licenziamento individuale, senza che ciò abbia comportato un abbassamento delle tutele contro i licenziamenti discriminatori e immotivati. Da segnalare, oltre al riconoscimento di nuovi diritti, la riforma degli ammortizzatori sociali che giaceva inevasa in Parlamento da almeno tre legislature.
Secondo lei, la legge Fornero prosegue nel solco delle leggi Treu e Biagi o è in discontinuità con esse?
Sì, sufficientemente: la sfida riformista tracciata dai due Maestri per eccellenza – Treu e Biagi – era basata sui temi cruciali delle riforme, perché la sfida potrà reggere soltanto alla condizione di un vero e proprio salto di qualità nel campo delle politiche attive, in proficua collaborazione con gli operatori pubblici e privati che fanno del placement una mission di funzione o d’impresa. Chi resta disoccupato, da anziano o da giovane, dovrà poter avere un’altra opportunità per rientrare nel mercato del lavoro, potendo contrare nel frattempo su un sistema di ammortizzatori sociali che non si limiti ad assicurare un reddito, ma sia funzionale alla promozione di un adeguato re-impiego.
Cosa si aspetta dal nuovo esecutivo?
Coraggio, coraggio, coraggio nel percorso riformista: c’è ancora tanto da fare insieme e non contrapposti per stare dalla parte delle persone e del lavoro e quindi dello sviluppo. È indispensabile promuovere un riequilibrio della spesa sociale dalla copertura dei rischi più tradizionali (vecchiaia, superstiti), a favore invece di altri (formazione, disoccupazione, sostegno al reddito, nuove povertà, conciliazione vita e lavoro) ora sacrificati. È la frontiera del welfare to work: un sistema di welfare in grado di riunificare un mondo del lavoro le cui differenze congenite potrebbero esaltare e rendere irreversibile il dualismo ora esistente.
(Giuseppe Sabella)