Mentre ferve il dibattito su un nuovo possibile intervento sulle pensioni, che apra la strada per un verso a una maggior flessibilità (“Ape”, o anticipo pensionistico), dall’altro a un rafforzamento delle fasce più basse, con probabile estensione della no tax area per i pensionati o altre misure, rischiano di passare in sordina due recenti pronunce della Corte Costituzionale sul tema pensionistico, certamente di importanza marginale, ma, a mio avviso, ugualmente significative.
Con Sentenza 174/2016, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 18, comma 5, D.L. 98/2011, (la cosiddetta “norma anti-badanti”) che riduceva l’ammontare della pensione di reversibilità nel caso in cui il coniuge defunto avesse contratto matrimonio a più di 70 anni con una differenza di età tra i coniugi superiore a 20 anni; la decurtazione era stabilita in ragione del 10% per ogni anno di matrimonio mancante rispetto al numero 10: se dopo 5 anni di matrimonio contratto a 73 anni con persona di 45, poniamo, il coniuge ultrasettantenne veniva a mancare, la pensione di reversibilità avrebbe subito una decurtazione del 50%. La norma aveva un chiaro intento inibitorio di eccessive gratificazioni nei confronti di colf e badanti da parte di anziani, scaricandone il relativo onere sullo Stato: presupposti di fraudolenza sarebbero la breve durata del matrimonio (inferiore a 10 anni oltre alla giovane età del/della consorte) e l’assenza di figli minori, studenti o inabili, che renderebbero la norma inapplicabile.
Tra le motivazioni, la Corte ha considerato la pensione di reversibilità come “una forma di tutela previdenziale” avente un “peculiare fondamento solidaristico che ne determina la finalità previdenziale, presidiata dagli artt. 36 e 38 Cost. e ancorata dal legislatore a presupposti rigorosi“, benché sembri lasciare in fondo qualche spazio a un tentativo di riscrittura, nell’osservare che la presunzione assoluta che ogni matrimonio di questo genere sia in frode alla legge, “precludendo ogni prova contraria“, palesi l’intrinseca irragionevolezza della norma in commento.
Naturalmente non ho le competenze necessarie per entrare nel merito della decisione, ma l’esigenza di tutelare anche l’assetto economico del Paese mi sembra importante, evitando incrementi della spesa pensionistica che nella maggior parte dei casi possono avere poco a che fare con esigenze di tutela previdenziale: al primo gennaio 2016, le pensioni erogate ai superstiti sono 3.779.990 per un importo complessivo annuo di 29.698,3 milioni di euro (quasi il 17% del totale della spesa pensionistica). Si tratta di una spesa che in futuro potrebbe aumentare, sia per fattori demografici legati all’invecchiamento della popolazione, sia per il costo legato alla giovane età di eventuali reversionari.
La finalità previdenziale, inequivocabilmente asserita dalla Consulta, tuttavia, assume rilievo nell’attenzione che il Governo, alcuni mesi fa, avrebbe inteso dedicare alla pensione di reversibilità, ricomprendendolo tra le prestazioni assistenziali, oggetto di futuro riordino vincolato a parametri reddituali (Isee).
Con Sentenza 173/2016, la Corte Costituzionale ha dichiarato legittimo il contributo di solidarietà sulle cosiddette “pensioni d’oro” introdotto dalla Legge di stabilità 2014 per il triennio 2014-2016. L’art. 1, comma 486, della Legge prevede, infatti, un contributo di solidarietà del 6% sulle pensioni di importo lordo annuo superiori rispettivamente da 14 a 20 volte il trattamento minimo Inps (tra 91.344 e 130.491 euro), del 12% sulla parte eccedente l’importo lordo annuo di 20 volte il trattamento minimo e del 18% sugli importi superiori a 30 volte il trattamento minimo (195.737 euro).
Inoltre, differentemente dalla Sentenza 70/2015, dov’era stata dichiarata illegittima l’abolizione della perequazione della pensione per importi superiori a tre volte il trattamento minimo introdotta dal Governo Monti, in questa occasione la Corte ha respinto l’eccezione di incostituzionalità del limite all’indicizzazione agli importi più elevati (comma 483), presentato dalla sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della Calabria – non senza esagerazione – anche come violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Quanto al contributo di solidarietà, la Corte ne ha fissato i requisiti di costituzionalità, che questa volta sarebbero stati rispettati dal Legislatore: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza (escludendone cioè la natura tributaria), essere imposto dalla situazione di crisi contingente, incidere sulle pensioni più elevate, essere sostenibile, proporzionale ed essere utilizzato come misura una tantum.
Questa volta è andata così. Ma quando si introducono contributi addizionali a carico di categorie di cittadini, soprattutto i più abbienti, si rischia quasi sicuramente un giudizio di legittimità: meglio continuare a gravare sui giovani che alla pensione non ci pensano ancora.