Il minore dei fratelli De Rege sta compilando il suo compitino (il decreto (in)degnità) nell’intento di recuperare un po’ di quella visibilità che il fratello maggiore gli ha sottratto dal Viminale. Rispetto alla prima stesura, il decreto “prima/volta” di Luigi Di Maio ha perduto, strada facendo, dei pezzi e aggiustato delle intemperanze. La norma sui riders è stata accantonata per prima e affidata a un confronto tra le parti, dopo che i sindacati e le aziende interessate avevano fatto notare all’intraprendente ministro (con la vocazione della “scopa nuova”) che a risolvere il problema di questi lavoratori ci stavano già pensando loro all’interno dell’ordinaria contrattazione collettiva. E quindi non era proprio il caso di intervenire per legge con la pretesa di imporre una natura “innaturale” di lavoro subordinato a rapporti connotati da altre caratteristiche, anche a costo di costringere le aziende (multinazionali) ad abbandonare il Bel Paese.
Nel corso del lavoro preparatorio, poi, sono intervenuti alcuni problemi che il giovane ministro non aveva previsto. Uno di questi lo ha procurato la Ragioneria Generale dello Stato che, come è suo obbligo, deve certificare, con la cosiddetta bollinatura, la copertura delle norme di spesa, in mancanza della quale il presidente della Repubblica non può promulgare le leggi. Seraficamente Di Maio – già vice presidente della Camera, ora pluriministro – ha ammesso di non essere a conoscenza di tale passaggio cruciale (che probabilmente il “capo politico” attribuisce alla burocrazia). Per inciso, stiamo accorti, perché sulla base delle regole dello spoil system il governo è in grado di sostituire – il termine scade a settembre – il Direttore del Dipartimento della Ragioneria generale, Daniele Franco, magari allo scopo di nominare al suo posto un ciarlatano (ce ne sono tanti in quella consorteria di avventurieri) disposto a “obbedir tacendo”, senza darsi troppo pensiero per la correttezza dei conti pubblici.
Tornando al decreto Di Maio è singolare che il governo – negli stessi giorni in cui vengono resi noti andamenti in crescita dell’occupazione e in calo della disoccupazione – tiri diritto con un’impostazione che creerà non poche difficoltà alle aziende che intendono assumere. Nel mirino della “lotta alla precarietà” finiscono i contratti a termine, la cui liberalizzazione, grazie alla riforma del 2014, ha fortemente contribuito a sbloccare il mercato del lavoro, in misura maggiore di tutti gli incentivi alle assunzioni che da allora a oggi sono stati varati. In sostanza – anche con il supporto funesto dei media – si continua a deprecare un’occupazione che sarebbe “cattiva” proprio perché a termine, dimenticando che l’Italia ha uno dei più elevati tassi europei (e non solo) di impieghi stabili.
Come ha dimostrato Stefano Patriarca su “Il Diario del lavoro” va smentita anche l’affermazione che c’è un po’ di occupazione in più, ma è tutta precaria, volatile, destinata a sparire al primo stormir di fronte. Di quel milione di nuovi posti di lavoro complessivi creati dal momento dell’entrata in crisi, il 57% è a termine, il 43% a tempo indeterminato. Ma è utile fare anche un po’ di confronti internazionali per capire come davvero stanno le cose. Nel 2016, l’anno di cui si hanno i dati un po’ di tutti i Paesi, l’occupazione a tempo indeterminato è stata in Italia pari all’86,0%, sopra la media europea che è risultata pari all’84,4%. Stiamo peggio della Germania, che ha a tempo indeterminato l’86,8% dei suoi occupati, ma meglio della Francia (83,9%), della Svezia felix (83,9%) e persino dell’Olanda (79,4%).
Il neoministro appartiene alla scuola di coloro che hanno la seguente convinzione: le aziende per far “girare le macchine” sono costrette ad assumere; se il governo, pertanto, modifica o abroga le norme che consentono rapporti più flessibili, le aziende dovranno per forza avvalersi di lavoratori stabili. Ma questa tesi non è dimostrata; anzi di solito accade il contrario. Il “cavallo non beve”. Le imprese, nel contesto di un mercato molto dinamico e incerto, non rischiano di caricarsi di manodopera a cui non sono sicure di garantire una continuità occupazionale, che dipende dall’andamento oscillante degli ordinativi. I contratti a termine liberalizzati (ovvero privati dell’obbligo del cosiddetto causalone che produceva un contenzioso a posteriori a esito dubbio) per un utilizzo fino a 36 mesi coglievano queste esigenze delle imprese, in parallelo con l’istituto della somministrazione (di cui il decreto vuole abrogare quella a tempo indeterminato, ovvero lo staff leasing) che Di Maio ha assimilato al caporalato (questi ragazzi compiono più danni con le tante parole a vanvera che con i pochi fatti).
C’è poi un altro aspetto da sottolineare. L’obbligo delle causali a giustificazione del ricorso al lavoro a termine ricompare per i rinnovi successivi ai primi 12 mesi. Si tratta di causali molto specifiche e quindi accertabili in giudizio mettendo il naso nell’organizzazione del lavoro dell’azienda tenuta a dimostrare le esigenze che la inducono ad assumere a termine. Tali esigenze, per dare una mano ai giudici, non devono essere generiche, bensì: a) temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché sostitutive; b) connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria; c) relative a lavori stagionali e a picchi di attività stagionali individuati con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. Guarda caso: le stesse indicate nell’articolo 50 della Carta dei diritti della Cgil.
Se poi il neo ministro volesse farsi un’idea a proposito della norma (una “grida” di manzoniana memoria) che pretende di contrastare le delocalizzazioni, gli basterebbe impegnarsi in un ragionamento banale. Gli altri Paesi non soffrono della sindrome di Tecoppa: quel miles gloriosus che chiedeva agli avversari di stare immobili per poterli infilzare meglio e con minore fatica. Tutto ciò che un Paese adotta per limitare le libertà economiche sui mercati mondiali gli viene reso con gli interessi.