Chi ha paura di Sergio Marchionne? Le reazioni alla sfida dell’amministratore delegato Fiat sono sorprendenti, talvolta addirittura paradossali. Lo dimostra il dibattito aperto sulle colonne del Foglio, al quale fanno da pendant l’imbarazzo del Sole 24 Ore, il silenzio della Stampa, il giornale di casa Agnelli, lo scetticismo del quotidiano controllato indirettamente, il Corriere della Sera. Come sepolcri imbiancati, gli industriali privati assistono sospettosi, pronti a cogliere i vantaggi eventuali delle nuove relazioni industriali “all’americana”, ma attenti a non subirne le ricadute negative. Perché mai?
Si potrebbe citare Alessandro Manzoni nel celeberrimo passo su don Abbondio. Certo, è comprensibile l’imbarazzo di Emma Marcegaglia: magari in cuor suo è d’accordo con la scossa Marchionne, ma teme di non poter gestire le lacerazioni dentro la Confindustria e di inimicarsi il governo. Tace Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi teme di dover dare ragione «alle Cassandre che hanno dubitato delle buone intenzioni di Fiat». Prende cautamente le distanze Paolo Romani. Un imprenditore importante come Giorgio Squinzi, considerato vicino a Silvio Berlusconi, vanta, come esempio virtuoso e alternativo, il modello consensuale dei chimici. Resta silente Fedele Confalonieri.
Solo l’ex presidente di Confindustria, Antonio D’Amato, che pure non ha mai amato la Fiat e non lo nasconde, vuol cogliere l’occasione per una riforma profonda e radicale: “Lavorare di più, lavorare tutti”, dice, perché la Cina è davvero vicina.
Sorprese si manifestano anche in campo sindacale. Scontato è il fronte dei no guidato dalla Fiom. Così come coraggioso, ma abbastanza prevedibile, è il consenso di Sergio Chiamparino, “il pullover di sinistra”, ha titolato Il Foglio. Meno comprensibile appare la reazione della Cisl. Dopo che Raffaele Bonanni ha appoggiato l’accordo di Pomigliano d’Arco, non se la sente di andare fino in fondo anche a Mirafiori. Come mai?
Una spiegazione è che teme di perdere l’asse con il governo e con la Confindustria, alfa e omega della sua gestione confederale. Ha sottoscritto l’accordo sulla riforma dei contratti rompendo con la Cgil. E adesso l’Amerikano non sa che farsene. Bisogna ricominciare tutto da capo. Anche la formula delle deroghe non basta alla Fiat. Del resto, è una scappatoia furbesca: che senso ha darsi regole e poi non rispettarle? Meglio essere chiari e cambiarle. Nemmeno la Cisl, però, se la sente di passare a un modello semplificato: il contratto nazionale come minimo comune denominatore, lasciando il resto ai contratti aziendali, non complementari, ma sostitutivi. Proposta rilanciata da Carlo Callieri.
Chi ha puntato le proprie carte in questi anni sullo schema triangolare (sindacati, governo, padronato), nipote scapestrato del patto dei produttori e figliastro della concertazione, si trova spiazzato dalla mossa di Marchionne. Ora, si potrà anche dubitare delle motivazioni che muovono il capo della Fiat e si può, anzi si deve, metterlo alle strette: fuori i soldi per gli investimenti, fuori i nuovi modelli, vediamo se la promessa di aumentare le retribuzioni è solo una battuta piaciona lanciata in televisione.
È legittimo, anzi doveroso, rifiutare l’ipotesi di un addio all’Italia, lo spezzatino Fiat, la svendita delle macchine pesanti o dell’automobile, insomma tutti gli spettri che sembrano materializzarsi sulle brumose colline torinesi. Ma il manager dal maglioncino nero ha messo a nudo il flaccido corpaccione che schiaccia le potenzialità del sistema produttivo italiano. E ciò non riguarda solo la Fiat, lo sa bene anche chi oggi tace. Uno scambio tra salari più alti e flessibilità nell’uso della forza lavoro è il patto sociale del XXI secolo nelle economie industriali che vogliono restare competitive. Lo dimostra la Germania, se proprio ci fa venire l’orticaria il sistema americano.
Chiamparino richiama la sua parte politica, quella che viene definita la sinistra di governo, ammonendola che «vincerà la partita politica chi riesce a indicare al paese una proposta di sviluppo credibile». Lasciamo i suoi moniti alla dialettica interna al Pd. Ma la destra liberale e liberista? Ha perso all’improvviso la voce? Fa impressione che ancora una volta la classe imprenditoriale dimostri la sua belante timidezza. E’ una costante del secolo scorso, prima, durante e dopo il fascismo, tuttavia gli inguaribili ottimisti speravano che il Duemila, visti i cambiamenti che ha portato con sé, avesse segnato una rottura. Invece, almeno per il capitalismo italiano, historia non facit saltus. Anche un manager che viene dal freddo, così, può diventare il grande lupo cattivo.