Il Decreto dignità proposto dal Governo ha creato un forte dibattito sul mercato del lavoro. Quello che è stato definito come uno strumento che rottama il Jobs Act, in realtà ritocca in minima parte la riforma del Governo Renzi, in particolare solo per quanto riguarda l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo, portando l’indennità minima da 4 a 6 mensilità (livello tra l’altro assolutamente condivisibile). Il resto della norma rimane completamente inalterato. A ricevere i maggiore impulsi di modifica è invece il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34 (noto come Decreto Poletti), nello specifico portando la durata massima del contratto a termine a 24 mensilità e introducendo le “causali” al primo rinnovo successivo ai primi 12 mesi di contratto che restano “acausali”. A ciò si aggiunge una riduzione delle proroghe e un aumento del costo contributivo di 0,5 punti per ogni rinnovo (modifiche del tutto irrilevanti).
La riforma non piace alle associazioni di categoria (questo posso capirlo), la cosa più assurda è che non piace (a mio giudizio per effetto di auto-lesionismo cronico) ad alcuni partiti di centro-sinistra che dovrebbero essere invece il punto di riferimento dei lavoratori (soprattutto se lavoratori subordinati i principali beneficiari della misura).
Per capire l’impatto della riforma, dobbiamo osservare la tabella successiva: la riforma riguarderà indicativamente il 18% dei rapporti di lavoro a tempo determinato (quindi meno di 1/5 del totale), ovvero circa circa 1,6 milioni di persone all’anno (in questo caso rapporti e persone coincidono). Il decreto imporrà alle aziende che eventuali proroghe del rapporto di lavoro vengano realizzate con l’introduzione di una “clausola” (che motivi il perché si utilizza un contratto a termine). In passato al termine del contratto tale “clausola” è stata fonte di contenzioso e seppur non dispongo di statistiche effettive, la maggior parte del contenzioso sfociava in una trasformazione a tempo indeterminato a favore del lavoratore. A questo andavano aggiunti i costi risarcitori e le spese giudiziarie (insomma per l’azienda un vero salasso).
Rapporti di lavoro cessati per classe di durata effettiva
Fonte: Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto Annuale Cob 2017
Sono quasi certo che pochissime aziende introdurranno dopo i 12 mesi la “causale” e qui si verificheranno due possibilità: il lavoratore sarà sostituito da un’altra persona oppure sarà stabilizzato con un contratto indeterminato a tutele crescenti. A incidere nella scelta sarà il livello di competenza del lavoratore, i costi di sostituzione e di selezione della nuova risorsa. L’ipotesi più probabile è che una buona parte di quel 1,6 milione di rapporti di lavoro presenti caratteristiche da lavoratore a tempo indeterminato, seppur vero che per i lavoratori a bassa qualifica i rischi di non veder prorogato il loro contratto per effetto di una facile sostituzione sono molto più alti dei lavoratori più specializzati e qualificati.
Il “Decreto Dignità” presenta pertanto delle modifiche inerenti al contratto di lavoro a tempo determinato condivisibili, che vanno nella giusta direzione di garantire maggiori tutele ai lavoratori che sono stati assunti con questo tipo di rapporto di lavoro. Difficile ipotizzare che le imprese rinunceranno agli oltre 1,6 milioni di lavoratori: d’altronde l’aver ottenuto contratti così lunghi (superiori ai 366 giorni) è anche sintomo di buon rapporto tra le parti.
Ritengo che molte imprese non abbiano utilizzato il contratto a tutele crescenti proprio per la presenza di un contratto a tempo determinato senza causali, quindi libere di poter terminare il contratto in caso di necessità senza penali, lasciando in questo modo tutte le esternalità negative dovute alla ricollocazione di questi lavoratori in capo alla collettività.