I nostri giovani migliori, oramai abituati a confrontarsi col mondo del lavoro “globale”, già lo sanno, nel senso che lo stanno già sperimentando sulla propria pelle. Ci sono coloro che si arrabattano tra uno stage, un frammento di contratto o altro, e coloro che, a un certo punto, decidono di andare all’estero. Negli ultimi 10 anni sono 6276 i giovani laureati che hanno trovato un lavoro in un altro Paese. Nei 10 anni precedenti erano stati 3879. Il che ci fa dire che i confini del mondo del lavoro italiano, ancora troppo angusti e vincolati a vecchie pratiche di occupazione dei posti di lavoro più che a forme di qualità di un “servizio”, oggi più di ieri non facilitano la domanda di futuro dei nostri giovani.
Sembra perciò inarrestabile la cosiddetta “fuga dei cervelli”: negli ultimi 10 anni è raddoppiata la percentuale dei laureati tra gli emigranti italiani, dall’8,3% al 16%. Dispersione di risorse umane e – perché non dirlo? – anche economico-finanziarie, oltre che esistenziali. Un “sacrificio”, comunque, ben compensato: se confrontiamo i dati Istat del 2007 con quelli del 2011, sulle aspettative e le realizzazioni dei laureati rimasti in Italia con quelli emigrati, troviamo che all’estero si guadagna, mediamente, 500 euro in più al mese; senza dimenticare le maggiori opportunità occupazionali.
Il ministro Profumo, nei giorni scorsi, ha firmato il decreto che dà il via libera, per il 2013, al Programma per il reclutamento di giovani ricercatori intitolato a “Rita Levi Montalcini”. Cinque milioni di euro la cifra prevista per consentire a 24 studiosi di rientrare in Italia. Una piccola goccia nel “gran mare” italiano. Altra novità in arrivo è il “libretto dei saperi”, una sorta di curriculum vitae in grado di riassumere il percorso formativo e le esperienze dei nostri giovani, costruito in termini di certificazioni conseguite sulla base di un sistema nazionale scandito da alcun standard minimi.
Si tratta di un decreto, attualmente in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, approvato lo scorso 11 gennaio dal governo Monti. L’obiettivo è semplice: costruire la mappa completa che un candidato a una professione è in grado di mettere in evidenza in termini di competenze acquisite – formali, informali e non-formali. Cioè, non solo le certificazioni conseguite attraverso percorsi di studio, ma anche le competenze maturate in altra forma, con l’apprendimento permanente o attraverso esperienze non-formali.
Ricordo che sperimentazioni di questo “libretto dei saperi” sono state fatte in alcune regioni italiane negli anni scorsi. Penso qui al “portfolio delle competenze” legato a progetti in rete promossi dalla Regione Veneto, progetti finalizzati alla messa in evidenza delle diverse forme di certificazione, cioè delle competenze formali, informali e non-formali. Progetti conclusi due anni fa. Ora il governo prova a indicare gli standard minimi necessari per il riconoscimento delle diverse competenze, da riassumere in questo “libretto”, che accompagnerà il lavoratore, continuamente aggiornato, nel proprio percorso di vita.
È, lo possiamo dire, un passo in avanti importante, anche rispetto alle tradizionali modalità di auto-presentazione del proprio “curriculum vitae”, cioè delle proprie conoscenze, competenze, capacità, passioni, esperienze. Un passo in avanti anche rispetto all’Europass. Da alcuni anni, infatti, come modello per la costruzione di questo “curriculum vitae” (CV) viene utilizzato il formato europeo, cioè l’Europass. Avere un modello di riferimento, l’abbiamo tutti compreso, è importante, ma non basta. Nel senso che nessun modello standard può offrire garanzie di risultato. Perché non basta cioè mettere in fila le tappe del proprio percorso scolastico e formativo, comprese le prime esperienze lavorative. Ci vuole la personalizzazione, anche se non è facile scrivere il CV per se stessi, perché dovrebbe, a chi legge, dare l’idea dell’oggettività, della trasparenza, dell’informazione completa ed efficace.
Tutte cose necessarie, ma non sufficienti. Il motivo è evidente: il CV va scritto in relazione al proprio percorso di studio, di vita, di esperienze, ma in relazione anche al contesto o azienda destinataria della propria offerta di lavoro. “In relazione al contesto”: perché, come mi capita di ripetere spesso a gruppi di giovani, è attraverso un adeguato CV che ci si presenta al mondo del lavoro, ben prima di un colloquio de visu.
Diverso, ad esempio, deve essere il CV se rivolto a un Paese nordico o a un Paese mediterraneo. Per un’azienda inglese, provare per credere, non è necessaria la data di nascita, considerata discriminatoria: non si trovano richieste del tipo “si richiede candidato under 30” o “bella presenza”. Mentre negli Usa inserire i loghi delle realtà nelle quali si è lavorato è un valore aggiunto. In quale lingua, poi? Una in inglese e un’altra nella lingua del selezionatore o responsabile del personale. Fondamentali poi sono i certificati in lingua straniera, i nominativi da contattare per eventuali referenze e l’elenco degli stage curriculari. Un CV, perciò, “in-relazione”.
Il giovane interessato a una proposta di lavoro deve non solo dire chi è e le proprie competenze ed esperienze, ma deve far capire, alla fin fine, se possiede proposte originali o idee innovative da proporre. Un CV, poi, dovrebbe rimandare ad altri strumenti di comunicazione, magari un blog tematico (oppure i “social network”). Che faccia intendere, in poche parole, tutto un lavorio di fondo che rende la propria competenza davvero un valore aggiunto per un servizio, per una azienda, per uno studio professionale, per un contesto di lavoro di gruppo. Perché tre sono le caratteristiche oggi richieste ai giovani: dimostrarsi svegli e interessati alle continue innovazioni, disponibili a lavorare in gruppo, umili e disposti a imparare da tutti.
In Europa, a dar retta a un recente intervento apparso sul The Guardian, il 30% circa delle nuove assunzioni avviene attraverso la Rete informatica, nei siti specializzati. In Italia siamo circa al 10%: da un’indagine empirica svolta nei giorni scorsi è emerso che siamo attorno al 18% di assunzione previo contatto e verifica su internet. Percentuali che cresceranno, se pensiamo che solo il sito Linkedin ha, nel nostro Paese, 1,7 milioni di iscritti. Un grande parterre. Ma da noi il canale per essere assunti resta ancora, per il 25%, il passaparola, cioè la conoscenza personale. Una percentuale destinata a lasciare il passo ai nuovi metodi di approccio e di verifica, come attesta Almalaurea dell’Università di Bologna.
Ritornando al decreto del governo Monti in uscita sul “Libretto dei saperi”, legato alla Riforma Fornero (92/12), sappiamo che potranno essere certificati anche gli apprendimenti informali e non-formali, cioè sul luogo di lavoro, nel tempo libero, in famiglia. Come verranno certificate, e quindi riconosciute, le nuove competenze? Si farà riferimento a un “Repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualifiche professionali”. Gli interessati potranno rivolgersi ad appositi servizi predisposti dalle Regioni.
Un Repertorio, come un sorta di Albo delle competenze, legittimato da “enti titolati”, come Camere di commercio, scuole, università, enti di formazione. Con indicati gli standard minimi che gli enti certificatori dovranno rispettare, validi su tutto il territorio nazionale, standard intesi come “livelli essenziali di prestazione” (Lep): definiscono le conoscenze e abilità necessari per una certa professione, gli obiettivi di apprendimento, il contenuto, i requisiti di accesso, i livelli di risultato, le modalità per ottenere un certificato. Questo Repertorio dovrà essere reso pubblico entro 18 mesi dall’entrata in vigore.
Uno strumento utile, quindi, per chi si candida e per tutto il mondo del lavoro. Ma uno strumento, come hanno rilevato le Parti sociali, ancora pensato in termini centralistici e burocratici, mentre era più corretto lasciare alle singole Regioni interventi su misura. Penso qui al previsto “organismo nazionale di accreditamento degli enti titolati” a eseguire la certificazione.
Resta lo snodo appena dichiarato da Monti all’inizio del suo breve mandato, poi messo nel cassetto: l’abolizione del valore legale del titolo di studio. È strano il totale silenzio delle forze politiche su questi aspetti in campagna elettorale.
Secondo i dati Isfol 2011, gli adulti tra i 25 e i 64 anni che nell’ultimo anno hanno partecipato a corsi di formazione sono solo il 7,9% del totale. Dati che, assieme alle statistiche sulla disoccupazione che ci inseguono quasi ogni giorno, dovrebbero far meditare tutti. Non basta dire “lavoro”, perché lavoro sia.