Parliamo di economia e di lavoro e lo facciamo in una fase storica in cui i fondamenti di entrambi, per come li abbiamo sempre conosciuti, stanno cambiando certamente. Smossi dalla crisi, o se vogliamo metterci in un’ottica più ottimistica smossi dai tempi che cambiano, quali che siano i giudizi di valore sul mutamento in atto, siamo costretti a chiederci su quali basi fondare il nostro sistema economico e sociale futuro. Per di più, questi due grandi interrogativi, non ci stancheremo mai dirlo, sono il fulcro dell’agenda politica di chi governerà.
Già, chi governerà? Perché pare che nemmeno le elezioni siano in grado di dircelo. La parola d’ordine è ingovernabilità e se volessimo rifugiarci nella fede, oltre al Padre nostro che è nei cieli, sulla terra anche su questo piano ci ritroviamo senza guida. Non possono che intensificarsi gli interrogativi detti quando viene meno un’istituzione che è fondativa di risposte per etimologia, per antonomasia. Ciò diviene tanto più vero in un Paese come l’Italia, vuoi perché abbiamo in seno la sede del Pontefice, vuoi perché è parte della storia dei nostri partiti e del nostro elettorato rifarsi alle posizioni della Chiesa di Roma.
La rinuncia del ministero pietrino da parte di Papa Benedetto XVI è arrivata come un fulmine a ciel sereno e ha suscitato tante reazioni. Sorvolando e scostandoci con fermezza dalle derive vergognosamente complottistiche, diciamo pure che la laicità italiana non prescinde dunque da una contiguità geografica, storica e soprattutto culturale con la Santa Sede, che è rimasta vacante proprio quando la nostra disoccupazione è alle stelle, la pressione fiscale pure, mentre i consumi e la crescita sono sideralmente bassi. È solo in questi termini che dunque le dimissioni del Papa possono rientrare nel dibattito politico e scuoterlo.
Eppure, in questa confusione, in cui a Porta a Porta lo stesso Vespa si sconvolge di ritrovarsi a inquadrare le finestrelle illuminate delle case di candidati premier quasi come si trattasse di piazza San Pietro, la profondità di certe idee politiche non risente davvero del caos. Queste idee anzi, trovano addirittura un’eco nell’analisi di quell’enciclica in cui, guarda caso, il Papa teologo proprio di questo ha scritto. Più volte abbiamo spiegato come per noi l’impresa sia comunitaria; come le stesse relazioni di lavoro e in generale le relazioni industriali debbano tradurre questa vocazione comunitaria nel loro esplicarsi quotidiano.
In una delle encicliche che papa Benedetto ha emesso per la sua Chiesa, segnatamente nella Caritas in veritate, leggiamo che «accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città».
Ora, le esigenze sono le stesse? Sì. Se di economia pura, macro o micro che sia, dicono meglio gli economisti, sul lavoro mi azzarderei a dire qualcosa anche io. Proprio in una confusione che le elezioni politiche non hanno risolto, devono restare saldamente fermi gli obiettivi dell’occupabilità e della modernizzazione del mercato del lavoro; e fermi, soprattutto, gli strumenti per realizzarli: modelli flessibili di contrattazione, tra le Parti sociali e con gli stessi lavoratori, che guardino al bene comune (nell’accezione richiamata del termine) e quindi al bene del Paese. Non si scappa.
In collaborazione con www.amicimarcobiagi.com