La tragedia che ha colpito in particolare Amatrice può essere rivelatrice delle concrete conseguenze di una riforma della dirigenza pubblica che voglia soggiogare totalmente i vertici amministrativi alla politica. Ai cittadini la riforma viene offerta come sistema per far finalmente controllare, lavorare e misurare l’azione dei dirigenti pubblici, levando loro i privilegi, sottoponendoli alla licenziabilità e alla riducibilità dei trattamenti economici. Il tutto, condito da un necessitato aumento della produttività. Messaggi semplici, che parlano alla “pancia” delle persone e tali da non poter non suscitare convinti adesione e consenso.
Tuttavia, in gioco c’è, purtroppo, molto altro. Il tutto prende le fila dal principio di separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali. Gli organi politici dovrebbero occuparsi solo di definire il programma e fornire gli indirizzi, essenzialmente mediante il bilancio di previsione, programmi di definizione di obiettivi e direttive generali; i dirigenti dovrebbero, poi, attuare questa programmazione, vincolandosi al raggiungimento dei risultati previsti, con autonomia operativa e restando vincolati al principio di legalità, imparzialità e correttezza.
Per esemplificare al massimo, un sindaco può certamente decidere di incidere sull’economia del comune attraverso una programmazione urbanistico ed edilizia finalizzata a espandere la vocazione produttiva manifatturiera. Alla luce di questi indirizzi, gli uffici tecnici elaborano i piani e curano le pratiche di controllo sull’avviamento delle attività edilizie connesse, nel rispetto di regole generali valide per tutti, perché ciò che conta è rispettare l’indirizzo, non utilizzarlo per favorire questo o quell’altro costruttore, considerato vicino al partito del sindaco.
Andiamo ad Amatrice. Il Sole 24 Ore nell’articolo “Quel vicesindaco-geometra che ha costruito mezza Amatrice” informa che il sindaco del paese sconvolto dal terremoto all’indomani delle elezioni che lo hanno riconfermato abbia affermato: “Io sono il sindaco di chi mi ha votato!”. Una dichiarazione chiarissima: moltissimi esponenti politici si sentono investiti del potere per utilizzarlo non a beneficio indistinto della comunità amministrata, bensì a vantaggio di chi li ha votati, di chi stia dalla sua “parte”. Troppo spesso si scambia il diritto di definire un indirizzo politico amministrativo, col potere di favorire chi ha prestato consenso, a esclusione degli altri.
Notizie di stampa di queste ore lasciano comprendere che la magistratura stia aprendo fascicoli per le licenze edilizie “facili” rilasciate ad Amatrice, possibili eventuali concause del disastro. Sempre Il Sole 24 Ore nell’articolo citato prima informa che vice sindaco del comune martoriato dal terremoto è un geometra “che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni ’90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma”.
Fermiamoci al dato di fatto. Citiamo altra stampa, in particolare l’Huffington Post che nell’articolo “Il sindaco Amatrice Sergio Pirozzi respinge le accuse: ‘Abusi e licenze facili? Non risulta, sono tranquillo’. Riunioni serrate” riporta le dichiarazioni di una consigliera comunale: “Abusi? Non mi risulta. E poi che c’entra il sindaco con le licenze? Quelle le dà l’ufficio dei tecnici del Comune”. Vero, è così. Gli atti “gestionali”, come appunto licenze edilizie, sono di competenza appunto dell’apparato e, in particolare, del vertice amministrativo, il dirigente o il funzionario di vertice incaricato di funzioni dirigenziali.
Ora, qui sta il problema, connesso alla riforma e alla rilevanza per i cittadini. Il dirigente o vertice amministrativo non vive, evidentemente, sulla Luna, ma opera nel contesto amministrativo del comune dal quale dipendente. Chi gli assegna l’incarico è il sindaco, che a lui si rivolge per la definizione degli indirizzi e lo valuta e può revocarlo o licenziarlo. Anche la giunta comunale e gli assessori, vicesindaco compreso, dettano indirizzi e controllano l’operato dei vertici. Laddove vi sia un sindaco, vice sindaco, o assessore, che opera lavorativamente nell’edilizia di un territorio (cosa frequentissima nei comuni), non è difficilissimo immaginare che se l’atteggiamento generale è che il sindaco, e, quindi, l’intera amministrazione, è di chi lo ha votato, possano esservi non indirizzi, ma vere e proprie pressioni verso il dirigente incaricato, volte a favorire appunto il costruttore “amico”, sì che possa essere privilegiato nell’ottenere titoli abitativi a disdoro di regole amministrative e, magari purtroppo, anche tecniche.
Non si sta parlando di robe astratte: il Piano nazionale anticorruzione elaborato dall’Anac e la stessa legge anticorruzione (190/2012) considerano espressamente l’attività edilizia nei comuni a elevato rischio, perché si presta moltissimo a provvedimenti concessori inquinati da interessi particolari. Se la legge che regola la dirigenza configura, come oggi avviene, il loro rapporto a tempo indeterminato e l’incarico dirigenziale soggetto a valutazione di merito, ma non a scadenza non rinnovabile, è evidente che il dirigente ha modo di attuare gli indirizzi politici in maniera corretta, potendo anche rintuzzare eventuali pressioni esterne. Quel dirigente non sottosta al ricatto della precarizzazione di una scadenza irrimediabile dell’incarico, da cui potrebbe derivare, oltre alla falcidia del trattamento economico, anche il licenziamento.
La riforma Madia punta esattamente a smontare questi equilibri. Attribuisce totalmente alla politica il potere di incaricare i dirigenti (basterà semplicemente concordare con le commissioni nazionali addette alle procedure comparative che la persona “di fiducia” sia inserita sempre nelle rose di candidati tra cui scegliere) e ne precarizza lo status: infatti, gli incarichi dirigenziali scadranno sempre dopo 4 anni, anche se il dirigente abbia ricevuto valutazioni positive, sicché si apriranno necessariamente le porte per la messa in disponibilità, che significa riduzione dello stipendio anche fino al 70% e prospettive di trasferimenti forzati o di licenziamento.
La riforma mette in mano alla politica una vera e propria arma di coercizione per i dirigenti, che possono divenire strumenti perfetti per attuare scelte a vantaggio “di chi vota” e a danno di tutti gli altri. Per “danno” potendosi intendere anche incuria del territorio, licenze facili, discriminazioni amministrative che trasformino i cittadini in elettori di serie A, quelli che votano la maggioranza in carica, e di serie B, da trattare sempre e comunque come “avversari”. I dirigenti, competenti alla gestione tecnica, saranno lo strumento per operare in questo modo discriminatorio e contrario all’interesse pubblico: quelli incaricati per via della “fiducia” e “conoscenza personale”, perché cooptati proprio in relazione alla dichiarata appartenenza alla “parte”, della quale sono essenziali e a vantaggio della quale si sentono chiamati e in dovere di agire; quelli che si ritrovino con incarichi legati a circostanze diverse dalla cooptazione, avranno infinitamente meno spazio per decisioni autonome, compressi dalla precarizzazione enorme del loro stato.
E non è un caso che la politica, sempre alla ricerca del dirigente “di fiducia”, faccia altrettanto presto a tentare di scaricare sul dirigente stesso le responsabilità sia penali, sia amministrative. È da ricordare che la riforma della dirigenza si completerebbe di una norma volta ad attribuire in via esclusiva sempre ai dirigenti stessi tutte le conseguenze dannose sul piano erariale di ogni atto adottato, anche se esecutivo di programmi e direttive politiche. Norma che è stata rinviata alla riforma complessiva della Pa, perché il criterio di delega è contenuto, nella legge 124/2015, sia nell’articolo 11 dedicato alla dirigenza, sia nell’articolo 17 riferito alla riforma complessiva del lavoro pubblico.
V’è, dunque, tempo fino a febbraio per affrontare questo nodo molto spinoso, che tra tutti appare quello in grado di dimostrare in modo più chiaro che la riforma della dirigenza è fin troppo orientata a creare una dirigenza di parte, partitica, politica, finalizzata ad avvantaggiare “chi vota a favore” e a coprire quanto più possibile le responsabilità.