La digitalizzazione delle imprese italiane in linea con la cosiddetta Industry 4.0 si pone come una delle più importanti sfide di politica industriale degli ultimi anni. Il tema della quarta rivoluzione industriale, incentrata sull’applicazione delle nuove tecnologie alle tecniche produttive oggi esistenti, alimenta un continuo dibattito, anche alla luce della portata storica del cambiamento in atto; cambiamento che, senza ombra di dubbio, impone un’attenta valutazione dei benefici e degli svantaggi in termini di ricollocazione delle risorse.
Ancora prima, però, di valutare l’effettivo impatto, è necessario chiedersi quanto il Paese sia pronto a raccogliere la sfida della modernizzazione e le conseguenze che graveranno sul mercato del lavoro e riflettere attentamente su quante opportunità di lavoro, di innovazione e di sviluppo delle imprese, già oggi, vengano perse a causa delle carenze formative del sistema scolastico italiano. Il Piano Industria 4.0, infatti, rappresenta un’enorme possibilità di crescita fintanto che ci sia la volontà di realizzare un deciso sforzo da parte dell’intero Paese teso a migliorare e innovare il modo in cui i giovani e i lavoratori sono formati all’utilizzo delle nuove tecnologie.
Non vi è dubbio che il successo (nel medio-lungo periodo) del Piano Industria 4.0 sarà condizionato dalla possibilità di sviluppare il più rapidamente possibile una formazione e preparazione delle competenze digitali necessarie in tale campo, oggi purtroppo carenti. A riguardo, infatti, le imprese, e in special modo le Pmi, non riescono a reperire sul mercato le risorse in possesso di competenze adeguatamente formate dal sistema scolastico, e questo non solo nelle tecnologie digitali necessarie, ad esempio, per la stampa 3D o l’IoT, ma anche semplici periti sufficientemente preparati da poter inserire rapidamente nell’attività produttiva, senza necessità di un’ulteriore e costosa opera di formazione in azienda.
Questa carenza “formativa” è la principale causa dell’enorme distanza tra istruzione e produzione che contraddistingue il nostro sistema economico e che contribuisce ad ampliare il gap nei confronti degli altri paesi europei (soprattutto del nord Europa). La scuola italiana, infatti, vede storicamente il predominio dei licei e della formazione umanistica rispetto a quella tecnica, ma anche larga parte degli istituti tecnici non si sono adeguatamente aggiornati, non riuscendo così a produrre le competenze tecniche necessarie.
A tal riguardo, prendendo visione dei dati Istat sulla digitalizzazione della popolazione italiana, il quadro che ne viene delineato pare decisamente preoccupante. In Italia, infatti, la percentuale dell’intera forza lavoro con competenze digitali elevate è considerevolmente inferiore alla media dell’Unione europea (il 23% contro il 32% nell’Ue). A ben vedere, tra i 5 maggiori paesi europei, l’Italia mostra il più basso livello di diffusione delle competenze digitali. Permane, inoltre, un notevole divario generazionale poiché se si prende ad esempio la popolazione con età compresa tra i 16 e i 24 anni, la percentuale di soggetti con conoscenze digitali elevate arriva al 40%. Infine, coloro che si servono delle nuove tecnologie hanno competenze digitali più avanzate nell’ambito della comunicazione (64,9%) e dell’informazione (64,6%) rispetto alla capacità di risolvere problemi (50,6%) e di manipolare o veicolare contenuti digitali (49,2%).
Ulteriore aspetto che potrà determinare il successo del Piano Industria 4.0 è l’investimento sulla formazione e aggiornamento continui, che tengano conto del mutamento delle tecnologie applicate ai processi produttivi. Anche sotto questo aspetto è importante citare alcuni dati. Secondo la Rilevazione sulle Forze di Lavoro, nel 2016, in Europa, oltre un adulto su dieci (il 10,8%) fra i 25 e i 64 anni ha partecipato a iniziative formative nelle ultime 4 settimane. I tassi di partecipazione fra i paesi mostrano una notevole variabilità, con i valori più elevati osservati nei paesi scandinavi (Finlandia, Svezia, Danimarca). Ancora una volta, invece, l’Italia, con l’8,3%, si attesta al di sotto della media europea.
Nel nostro Paese, tra gli individui in possesso al più del titolo secondario inferiore, la quota di quanti hanno partecipato ad attività formative scende addirittura al 2,3% (rispetto al 4,2% registrato nell’Ue). Oltre al livello di istruzione, influiscono sulla partecipazione alla formazione lo status occupazionale (rispettivamente il 9,1% fra gli occupati e il 6,8% fra i non occupati) e l’età (la partecipazione diminuisce al crescere dell’età passando dal 15,1% nella fascia 25-34 anni al 4,3% in quella 60-64). Si osserva, inoltre, una partecipazione più frequente alla formazione per i lavoratori che operano nei settori le cui produzioni sono a maggiore contenuto tecnologico. Nei settori high-tech del manifatturiero, la quota risulta pari all’11%, mentre nei settori più avanzati dei servizi la percentuale sale al 15%.
In conclusione, per riuscire a beneficiare dell’Industry 4.0, si dovrebbe pensare, prima ancora di occuparsi della rivoluzione del processo industriale, a convergere gli sforzi da parte delle Organizzazioni sindacali e del mondo delle imprese nell’affrontare l’insieme delle questioni connesse alla crescita delle nuove tecnologie, alla trasformazione dei mercati e alle legittime aspirazioni dei lavoratori, ragionando in termini di inclusività, ossia attraverso politiche in grado di sviluppare competenze specifiche con importanti investimenti sulla formazione delle risorse, ancor prima che sulla digitalizzazione del processo produttivo.