Il dibattito sul reddito di cittadinanza, o come lo si voglia chiamare, si è di colpo infiammato con la netta divisione di vedute emerse anche all’interno della Lega Nord fra Maroni e Salvini. Lasciamo perdere letture politicistiche che sottolineano solo se qualcuno vuole aprirsi al grillismo o cercare con parole d’ordine altisonanti nuovi bacini di voti per le scadenze a breve. In realtà, è un dibattito divisivo, che passa attraverso le culture presenti in tutte le forze politiche che hanno una reale base popolare, perché obbliga a misurarsi con l’introduzione nel nostro Paese di un sistema di welfare che, preso atto dei mutamenti del sistema economico produttivo, permette di rispondere a nuovi bisogni sociali con il rispetto dell’equilibrio economico.
Le forze populiste stanno proponendo di fatto e con semplicità un salario sociale. Tutti quelli che sono sotto una certa soglia di reddito devono ricevere dallo Stato un contributo di sostentamento. Visto il perdurare della crisi economica, visto che pure in presenza dei primi timidi segnali di ripresa produttiva la piena occupazione rimane un obiettivo non raggiungibile in tempi brevi, queste proposte demagogiche trovano un terreno fertile. Si incontrano inoltre con coloro che hanno teorizzato che il posto di lavoro è un diritto e che, data la sconfitta su questo terreno, si ripropongono dicendo che il diritto è al salario.
Al fondo c’è però un sistema-Paese che non ha mai affrontato il tema di che aiuto al reddito assicurare a chi ha bisogno di sostegno economico e che cosa chiedere in cambio. Non che il problema non sia stato affrontato, ma dall’estensione del concetto di invalidità alle baby pensioni, dalla distribuzione a pioggia di assegni di integrazione all’estensione a tutti della cassa integrazione straordinaria in deroga (da leggersi come deroga a un provvedimento da ritenersi già straordinario) si è operato con una distribuzione talvolta clientelare, e in altri casi senza verifiche, di sostegni diffusi permessi da periodi di assenza di vincoli alla crescita della spesa pubblica. L’effetto più evidente è dato dalla distribuzione delle pensioni erogate nel nostro Paese rispetto agli altri partner europei. Qui circa il 75% delle pensioni sono a livelli bassi e solo nel rimanente 25% si tratta di pensioni d’oro o normali. Cioè una distribuzione che fa essere il Paese con una distribuzione ingiusta e una pensione media più bassa.
Essendo il sistema pensionistico il principale fattore del welfare ci indica una strada da non perseguire. La proposta di un reddito minimo per tutti non solo si scontra coi vincoli del debito pubblico cui dobbiamo badare e non perché lo impone l’Europa, ma rende impossibile avere un sistema sostenibile oggi e anche per chi verrà dopo di noi.
Il tema è per chi è perché assicurare un reddito e come finanziarlo. Sono ovviamente esclusi da questa ipotesi gli interventi di carattere sociale, ossia quelli legati a indigenza generata da problematiche sociali cui non basta il lavoro per rimettere in moto le persone e le famiglie. Oggi si stanno riportando gli strumenti a essere coerenti con gli obiettivi per cui sono stati introdotti e ciò permetterebbe di renderli anche valutabili per la loro efficacia.
Nell’ambito del Jobs Act si riconduce la cassa integrazione al ruolo originario. Mentre oggi è servita, e stante la rapidità e la profondità della crisi non vi era tempo per altri interventi, ad assicurare un’estensione degli ammortizzatori sociali per tutti i lavoratori coinvolti in crisi aziendali indipendentemente dalla possibilità di ripresa dell’azienda, d’ora in poi tornerà a essere strumento di sostegno per progetti di ristrutturazione industriale. L’introduzione della Naspi (e del Dis-coll per chi ha contratti di collaborazione) risponde proprio alla necessità di assicurare un sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria.
In questo caso si tratta di un’indennità regolata nel valore economico (in rapporto al reddito precedente e con un tetto massimo) e nella durata (massimo 24 mesi con successivi interventi eventuali di altro tipo). Questo sostegno è inoltre vincolato. Chi lo percepisce deve, pena la decurtazione o decadenza dal beneficio, incrementare la propria occupabilità con percorsi formativi e non rifiutare offerte di lavoro che dovessero essere avanzate dall’Agenzia per il lavoro che lo assiste. Il tema è quindi posto molto chiaramente. Il modello lombardo del mercato del lavoro e dei servizi al lavoro funziona così da anni e lo ha reso evidente.
Chi perde il lavoro sceglie un’agenzia che lo accompagni nella ricerca di una nuova occupazione. Ha in questo percorso diritto a una spesa in servizi al lavoro (orientamento, formazione, sostegno nella ricerca occupazione) proporzionale alla sua necessità di recuperare occupabilità. Ha un sostegno al reddito che viene dalla legislazione nazionale. Prima attraverso la cassa integrazione nelle sue diverse articolazioni, oggi attraverso la Naspi.
Il contratto di ricollocazione e la riforma delle politiche attive previste dal Jobs Act indicano un percorso molto simile al modello descritto. I decreti attesi per l’inizio di giugno ci auguriamo recepiscano questa esperienza già testata e che ha dato risultati in linea con i migliori modelli di workfare europeo. Il limite però è che questo modello tutela solo chi è in disoccupazione involontaria, ossia è già entrato nel mercato del lavoro e per cause indipendenti dalla sua volontà si trova disoccupato. Tutti coloro che vogliono entrare nel mercato del lavoro ma non hanno precedenti lavorativi o da tempo sono usciti volontariamente dal mercato e vorrebbero tornarci possono, a seconda della regione di residenza, trovare aiuto per la ricerca di lavoro, ma non hanno sostegno al reddito. Caso classico è quello femminile. Una donna che per qualche anno lascia l’occupazione e poi chiede di rientrare e cerca una nuova occupazione. Visto l’obiettivo di sostenere l’occupazione femminile troverebbe in Lombardia servizi per incrementare la sua occupabilità e un accompagnamento nella ricerca occupazione, ma non avrebbe diritto a sostegno al reddito.
Questo però non sarebbe il reddito di cittadinanza proposto da populismi di destra e di sinistra. Sarebbe come un’universalizzazione della Naspi, con i relativi obblighi, per sostenere tutti coloro che si impegnano nella ricerca di lavoro. Distinguere fra assistenzialismo e nuovo workfare è indispensabile. Ogni confusione ci riporterebbe a sistemi clientelari e a una spesa fuori controllo.