All’epoca in cui la riforma delle pensioni fu varata, mentre già si intravedevano i danni che avrebbe prodotto, dominava, per lo più, un sentimento di scoramento misto a rassegnazione. La speranza che vi avrebbe posto rimedio il governo successivo era decisamente troppo timida per esser presa in considerazione. E invece, più passa il tempo e più l’ipotesi di un suo ripensamento diventa concreto. In particolare, vi è il consenso politico sufficiente per introdurre quel criterio di flessibilità così necessario per rendere la disciplina umanamente e socialmente sostenibile. L’idea, è quella di consentire ai lavoratori di scegliere quando andare in pensione, entro un range compreso tra i 62 e i 70 anni, sulla base di disincentivi e incentivi. Maurizio Sacconi, presidente della commissione Lavoro al Senato, ci spiega come è possibile agire.
Si trova d’accordo con l’ipotesi di modifica della riforma?
Direi di sì. Il governo, attraverso il presidente del Consiglio e il sottosegretario al Welfare, Carlo Dell’Aringa, considerando che il nostro sistema è il più rigido d’Europa, ha fatto presente la necessità di introdurre alcuni elementi di flessibilità. Ebbene, questa mattina, la commissione Lavoro, su mia proposta, ha chiesto al Centro studi del Senato di produrre una ricerca comparata sulla regolazione e sulle prassi legate alla flessibilità in uscita vigenti nei diversi Paesi Ue.
A qual scopo?
Come ha più volte ribadito, in passato, l’allora premier Berlusconi, è opportuno procedere verso la convergenza dei sistemi previdenziali europei. Tale convergenza sarebbe volta alla sostenibilità delle finanze pubbliche dei diversi paesi, alla mobilità dei cittadini, e all’equità sociale. Non è pensabile, per intenderci, che sulla base delle regole attuali le donne tedesche vadano in pensione a 67 anni, dieci anni più tardi di quelle italiane.
Effettuata questa ricognizione, come suggerisce di agire?
Regolandoci sui riscontri ottenuti, potremmo combinare nella maniera più adeguata al contesto politiche di invecchiamento attivo (finalizzate al reinserimento del lavoratore anziano nel mercato del lavoro) con modalità di accesso al regime previdenziale flessibili e onerose. Va specificato che l’onerosità di cui parlo è contemplata dalla crescente applicazione del metodo contributivo che, già di per sé, include dei disincentivi per l’uscita anticipata.
Come va affrontata, invece, la vicenda degli esodati?
Più si estende il concetto di esodati, più si rischiano sperequazioni. Per esempio, potrebbe risultare favorito una lavoratore più giovane che può beneficiare della partecipazione a un accordo collettivo, a scapito di uno anziano che, magari, essendo semplicemente dipendente di un’azienda fallita, non ha partecipato a intese collettive e deve attendere fino ai 67 anni senza reddito da pensione o da lavoro. Anche in tal senso, quindi, occorre varare un intervento nel segno della flessibilità e dell’equità. Si tratta, in sostanza, di individuare misure strutturali che coniughino le politiche attive di reimpiego con la flessibilità in uscita.
La flessibilità, in generale, è finanziariamente sostenibile?
A dire il vero, la vicenda degli esodati è lì a dimostrare come la riforma non sia sostenibile proprio così com’è stata strutturata. In ogni caso, la sostenibilità della flessibilità andrà verificata tenendo conto di alcune variabili quali l’andamento del mercato del lavoro. Senza dimenticare che se il rigore dei numeri è un criterio sacrosanto, lo è pure l’attenzione concreta alle persone.
Perché, all’epoca, l’ipotesi di garantire una forbice entro cui decidere quando andare in pensione fu scartata?
Si trattò di una scelta politica ben precisa, che Renato Brunetta ha definito in
più occasioni un “overshooting”. Si è “sparato”, cioè, troppo in alto. Questa riforma, infatti, contiene rigidità che non esistono in nessun altro Paese e ha eliminato qualsiasi transizione in nome di un eccessivo asservimento alle preoccupazioni europee.
(Paolo Nessi)