Brutta sorpresa per chi sta pensando di mettersi a riposo dal prossimo anno: troverà svalutati i contributi su cui gli verrà calcolata la pensione. Colpa della crisi e dell’andamento del Pil, andamento al quale è legata la rivalutazione del montante contributivo (il “salvadanaio” con i contributi versati durante la vita lavorativa). A stabilirlo è il recente decreto legge n. 65/2015 del governo, il provvedimento sulla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il blocco dell’indicizzazione delle pensioni per il biennio 2012/2013. La notizia è passata sottotono, almeno in confronto a quella del recupero dell’inflazione per i pensionati. Eppure è paradossale la decisione del governo: una nuova penalizzazione per i lavoratori (e, di questi, per quelli più giovani).
La questione è tecnica e riguarda il calcolo “contributivo” delle pensioni. Per questo interessa soprattutto i giovani, per tali intendendo quanti hanno cominciato a lavorare dal 1° gennaio 1996 che avranno la pensione calcolata interamente con tale criterio contributivo; agli altri lavoratori, invece, il calcolo contributivo della pensione si applica soltanto ai contributi versati dal 1° gennaio 2012 (effetto riforma Fornero).
Il criterio contributivo calcola la pensione nella misura pari a una “percentuale” dei contributi versati durante la vita lavorativa. Tale percentuale, prefissata dalla legge, cresce al crescere dell’età del lavoratore (al momento del pensionamento) nell’intervallo da 65 anni (4,301%) a 70 anni (6,541%). La percentuale è applicata ai contributi accantonati, mese dopo mese, anno dopo anno, durante la vita lavorativa e che formano il “montante”. Questo montante è soggetto a rivalutazione annuale a un tasso pari alla variazione quinquennale del Pil (Prodotto interno lordo).
Arriviamo alla questione. Il 27 ottobre 2014, nel fornire il tasso da applicare ai montanti dei lavoratori che si sarebbero pensionati nel 2015, l’Istat fece presente che per la prima volta dal 1996 il tasso risultava inferiore a 1, cioè pari a 0,998073%. La cosa apparve singolare, perché avrebbe determinato non la “rivalutazione” ma la “svalutazione” del montante contributivo e, quindi, dell’importo della pensione. Esempio: il montante di 300 mila euro sarebbe diventato 299.422 euro e pure la pensione, di conseguenza, sarebbe risultata inferiore: 19.585 euro e non 19.623 al pensionando di 70 anni (38 euro in meno per tutta la vita).
Come da tradizione italiana, ci fu dibattito sul da farsi con il solito distinguo tra favorevoli (lo dice la legge!) e contrari (la legge non lo prevede!). A mettere la parola fine ci pensò l’Inps che, in via amministrativa, “congelò” la svalutazione sostenendo che la legge n. 335/1995 non prevede l’applicazione di un tasso in senso negativo (svalutativo). Decisione buona e giusta: la riforma Dini, infatti, parla di “rivalutazione” dei montanti. L’accento, cioè, è posto nel senso positivo dell’operazione non anche in quello negativo. A ogni modo, l’Inps stoppò l’operazione in attesa di chiarimenti definitivi da parte dei ministeri competenti.
Siamo giunti ai giorni nostri. Quel chiarimento definitivo è ora arrivato con l’art. 5 del decreto legge n. 65/2015 che inserisce un “periodo” alla norma della legge n. 335/1995 che disciplina la rivalutazione dei montanti: «in ogni caso il coefficiente di rivalutazione (…) non può essere inferiore a 1, salvo recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive». Eccola qua la brutta sorpresa: quel periodo aggiunto alla legge n. 335/1995 stabilisce due cose:
1) che se in uno o più anni il tasso scende sotto l’1, la rivalutazione (che sarebbe negativa) non viene fatta per quegli anni;
2) che l’effetto “negativo” non è depennato, ma da recuperare sulle successive rivalutazioni, quando cioè il tasso risale sopra l’1.
La Relazione al decreto legge, depositata in Senato con il provvedimento per la conversione in legge, precisa che, per effetto della nuova norma:
1) è confermato per l’anno 2015 che il tasso di rivalutazione è pari a 1 invece del suo effettivo valore inferiore (cioè 0,998073);
2) e che nell’anno 2016 il coefficiente sarebbe pari a 1,005331, ma è rideterminato in misura di 1,003394 per recuperare il tasso in negativo dell’anno precedente.
Agli effetti pratici succede allora che, a chi si metterà in pensione a partire dal 1° gennaio del 2016, il montante contributivo anziché rivalutarsi di mezzo punto (0,5331%) salirà soltanto di uno 0,3394%: la differenza in meno, pari a 0,1927%, servirà a recuperare la “svalutazione” che doveva esserci nel 2015. Per contro, è fortunato chi va in pensione quest’anno: beneficia di una rivalutazione maggiorata dei contributi (+0,1927%) che non dovrà restituire mai più.
Ancora una volta, dunque, si nota la doppia mano del Legislatore nello scrivere le disposizioni: ai pensionati preserva il “potere di acquisto”, agganciando la rivalutazione delle loro pensioni all’inflazione; ai lavoratori invece aggancia le future pensioni all’andamento dell’economia: se il Pil cala scendono anche le loro pensioni. Come dire: è colpa dei lavoratori se il Paese per un certo periodo attraversa una crisi economica.